Piaccia o no, siamo in guerra. Piaccia o meno, Israele è una delle frontiere della civiltà occidentale, insieme all’Ucraina, contro il nemico comune.
Da una parte, infatti, ci sono le democrazie liberali con i loro difetti, errori, limiti, crimini anche talvolta, non si deve negarlo; dall’altra le autocrazie illiberali e le dittature, divise su tutto ma unite nell’attacco all’idea di cui l’Occidente è portatore.
Non è una guerra solo militare, anzi, l’aspetto militare è il più evidente ma non è, almeno al momento, il più importante nonostante l’aggressione militare all’Ucraina e quella terrorista ad Israele. È una guerra commerciale, di supremazia tecnologica, di influenza politica verso i Paesi in via di sviluppo o non allineati, certo, ma è soprattutto una guerra culturale, ideologica su quale sia il modello di civiltà migliore.
La guerra, la terza guerra mondiale, è iniziata da molto tempo, forse è già iniziata nel febbraio del 1945 quando il mondo si è diviso tra il blocco comunista e quello liberal democratico; pensavamo di aver vinto con il crollo dell’Unione Sovietica, ma il nemico ha saputo riorganizzarsi in una veste più subdola, meno ideologica, più pragmatica: la dittatura comunista cinese ha adottato il capitalismo bussando prepotentemente alle porte del WTO e Putin è un autocrate post ideologico.
La globalizzazione, che ha portato indubbi benefici a tutti, è ora guardata con maggior prudenza dalle leadership occidentali perché il Covid, l’invasione dell’Ucraina e le minacce a Taiwan e Filippine hanno fatto comprendere a tutti che non possiamo dipendere per energia e mezzi di produzione da Paesi pronti a trasformarsi in nemici in qualsiasi momento e tantomeno possiamo abdicare alla supremazia ed autosufficienza tecnologica.
Ma la guerra più pericolosa, che ancora non abbiamo capito di dover affrontare, è quella culturale che Russia e Cina combattono attraverso una disinformazione capillare, sfruttando le debolezze tipiche dei Paesi occidentali ovvero le élites intellettuali pronte a condannare la pagliuzza nei propri occhi e ad assolvere la trave in quelli altrui e le masse facilmente condizionabili da soluzioni facili a problemi complessi.
E torniamo alle guerre di frontiera.
Quello che è successo ad Amsterdam non è il frutto della repressione israeliana contro il popolo palestinese, bensì è l’esito di una campagna diffamatoria contro una nazione libera, civile e democratica che si difende da 70 anni contro le dittature arabe prima e il terrorismo ora, fomentato da uno dei principali protagonisti dell’asse del male, l’Iran; una campagna che ha saputo sfruttare l’antisemitismo ancestrale degli europei, veicolato attraverso la prudenza e l’equidistanza degli utili idioti dei talk show televisivi, del pacifismo peloso e conformista e con il braccio armato di squadracce di nordafricani indottrinati dall’estremismo religioso e la silenziosa complicità delle autorità di pubblica sicurezza.
A questa guerra culturale non dobbiamo rispondere con la paura, la chiusura, il razzismo, etnico o religioso e l’intolleranza, al contrario: dobbiamo riaffermare con forza la supremazia morale dei valori del rispetto, della libertà, dei diritti civili, delle libertà individuali, dell’accoglienza, dell’inclusione e della non violenza contro l’intolleranza religiosa e la repressione politica ma, con altrettanta forza, dobbiamo rifiutare ed espellere dalla società civile gli intolleranti, i violenti e chi non è capace di accettare i principi della convivenza civile.
E questa guerra comincia da Israele.
Piaccia o non piaccia Netanyahu, con tutti i suoi difetti, errori, limiti, crimini (da dimostrare) la prima battaglia si deve vincere sul suolo dell’unica democrazia del Medio Oriente