Tesoro, mi si è ristretto il salario

E ci risiamo. Puntuale come le tasse, all’avvicinarsi di ogni tornata elettorale, ritorna il refrain del salario minimo.

Una premessa doverosa: non sono ideologicamente contrario al fissare un limite minimo per gli stipendi. Penso che in un mercato del lavoro efficiente, leggasi un mercato nel quale le barriere all’uscita non fungano anche da barriere all’entrata e nel quale la progressione salariale sia governata (anche e soprattutto) dalla produttività che un sistema economico / burocratico funzionante ed efficace aiuti a tenere alta, dicevamo, in un contesto come questo, l’idea di uno stipendio che al minimo non possa scendere sotto una certa soglia, non mi scandalizza affatto.

Anzi, esattamente come per il Reddito di Cittadinanza, penso che l’adozione di misure volte al miglioramento delle condizioni di vita personali sia un preciso dovere di una democrazia liberale.

Comincio a perdermi, però, quando questo viene presentato come la soluzione ai mali del mondo del lavoro, dalla fuga dei cervelli, ai supposti stipendi più bassi in Italia rispetto al resto d’Europa alla confusione sui concetti (e sui livelli) di occupazione, disoccupazione e forme contrattuali.

Cerchiamo di fare un po’ di ordine partendo dall’annoso problema della fuga di cervelli. Innanzitutto, cerchiamo le dimensioni del fenomeno.

Dall’articolo di Lorenzo Ruffino, si evince che i numeri degli espatri sono aumentati negli ultimi 10 anni e negli anni tra il 2002 e il 2021, la media dei partenti è stata di ca. 71.000 persone all’anno, mentre quelli di ritorno ammontano a ca. 40.000, con un saldo negativo di ca. 31.000 persone all’anno. Il fatto che il flusso sia stato nell’ultimo decennio più o meno costante sancisce la sconfitta delle politiche del lavoro di tutti i governi che si sono succeduti nel periodo considerato, ma è anche il segno di un problema profondo, carsico, che ha più a che vedere con le fondamenta del nostro sistema economico / produttivo che con misure estemporanee di varia natura.

Altra vulgata vorrebbe che gli stipendi italiani siano inferiori a quelli esteri e talmente tanto inferiori da giustificare queste massive partenze. C’è chi per noi ha analizzato questi numeri riferendoli alla sola EU che, sempre dall’articolo di Ruffino citato sopra, cuba più dell’80% delle destinazioni preferite dai nostri espatrianti.

Dall’articolo di Forbes linkato sopra a cura di Giulia Adonopoulos veniamo a scoprire che la retribuzione media italiana è poco al di sotto di quella europea (33.500€ vs. 30.000€, ovvero, ca. il 10%) e che la differenza tra i paesi del Vecchio Continente può essere incredibile: si passa dai 72.200€ del Lussemburgo ai 10.300€ della Bulgaria.

Per la serie, attenti a dove fuggite, cervelli!

Se non si definiscono a monte gli effettivi numeri in gioco, ma ci si lascia trasportare dalla singola statistica estemporanea, appare chiaro come il Salario Minimo possa diventare uno dei cavalli di battaglia di tutti i partiti italiani, i quali però omettono di dire che il minimo da loro proposto si aggira su compensi che farebbero ammontare il reddito da lavoro annuo a una cifra che è ca. il 30% inferiore a quella del reddito medio che già abbiamo visto non essere altissimo. Lascio agli esperti i calcoli precisi, i miei sono tagliati con l’accetta, ma non errati di molto.

Da questa considerazione, spero risalti agli occhi di tutti il perché sparare riforme a caso solo per il gusto di farlo non aiuti la discussione politica, ma casomai la inquini.

E tanto più la inquina se non si spiega per bene quali lavori debbano essere retribuiti almeno col salario minimo, perché, questo sì, sarebbe il più grosso regalo si possa fare a quelle aziende non proprio lungimiranti quando si tratta di rapporti lavorativi che si troverebbero a fare naturalmente cartello verso i neoassunti piallando esperienze e competenze tutte sul minimo di legge.

Ma cosa sta succedendo nel mondo del lavoro italiano? Una parziale, ma circostanziata risposta ci arriva dal Rapporto AlmaLaurea 2024, almeno per quel che riguarda le aspettative di lavoro dei laureati. Dal rapporto si evince che rispetto al 2021, ad esempio, lo stipendio medio di un laureato a 5 anni dalla laurea si è abbassato di circa il 4%, ma contestualmente è diminuito anche il tasso di disoccupazione che insiste sulla stessa popolazione. Traduco: è vero che i laureati a 5 anni guadagnano qualcosa in meno di 3 anni fa, ma è anche vero che sono molti di più quelli che mantengono un lavoro. E questa è una buona, no, anzi, un’ottima notizia.

Interessante, poi, come il Rapporto focalizzi l’attenzione sull’aumento dell’adozione di Smart Working e altre forme di lavoro da remoto che, aggiungo io, comportano una diminuzione dei costi della vita contribuendo così a mitigare gli effetti della riduzione dei salari di cui sopra.

Così come positiva è l’interpretazione della tabella dove si riepilogano le forme contrattuali cui accedono i laureati di primo e di secondo livello a 1, 3 e 5 anni dalla laurea: aumentano le forme contrattuali a tempo indeterminato, arretrano quelle a minori garanzie. Perché? Io dico la mia: lungi dall’essere una rovina per i lavoratori, il Jobs Act ha portato a un aumento del numero di contratti a tempo indeterminato, grazie anche al meccanismo delle tutele progressive, rendendo meno appetibili per le imprese forme di lavoro autonomo sotto le mentite spoglie di quello subordinato (e.g. le finte P. IVA) e cancellando dall’ordinamento tutte quelle forme di lavoro temporaneo frutto della riforma Treu che avevano spaccato in due parti il mondo del lavoro di fine anni ’90 e inizi 2000: tutelati e non tutelati.

Quindi, tutto bene? L’Italia è il paese del lavoro perfetto? Tutt’altro: guardando al mercato nel suo insieme, il tasso di disoccupazione sfiora il 7%, ma a preoccupare veramente è il tasso di inattività bloccato al 33% per la popolazione tra i 15 e 50 anni con i NEET (Not Employed, Educated or Trained, ovvero persone che non stanno studiando, lavorando e non hanno competenze utili a un proficuo inserimento futuro nel mondo del lavoro) ancora al 17,5% per la fascia d’età tra i 15 e 34. Una percentuale in calo negli ultimi anni, ma pur sempre impressionante.

Dunque, ricapitoliamo.

Non è la paga bassa a far fuggire i cervelli, abbiamo visto che le differenze sono talmente irrisorie da non giustificare una diaspora così costante nel tempo ed estesa nella dimensione. Dobbiamo quindi ricercare le cause altrove. Qui, una possibile spiegazione: a fronte di un numero di laureati sempre più elevato e sempre più concentrato in materie STEM, l’Italia si piazza molto indietro nella classifica del tasso di innovazione industriale a causa di un ecosistema produttivo industriale e di servizi desueto sia in termini di competenze sia in termini gestionali. Tradotto: in Italia si trovano pochi lavori ad alto valore aggiunto, vale a dire quei profili più ricercati (e più pagati) dal mercato.

Non è la paga bassa a far diminuire l’occupazione che, nel suo complesso, tra l’altro, non sta nemmeno diminuendo.

È l’incompetenza politica, anche quella di “quelli competenti” a tenere questo paese stretto nel giogo della povertà e dell’ignoranza. A questo punto, il dubbio dovrebbe essere venuto anche a voi: la ragione per cui il salario minimo rappresenterebbe un punto di svolta nella lotta all’indigenza si fonda su numeri dati a casaccio e correla aspetti che tra loro c’entrano poco. Dovesse quest’idea trasformarsi in una proposta politica, senza che prima vi sia una seria e profonda riforma del mercato del lavoro e dei correlati ammortizzatori sociali, non farebbe altro che affrontare il problema dal lato sbagliato con conseguenze necessariamente nefaste.