Le torce umane che arsero per la libertà

Nel buio profondo del regime sovietico molte torce umane si accesero, sacrificandosi per illuminare la strada verso la libertà. In tutti i casi, a seguito dei loro sacrifici, le autorità di pubblica sicurezza sovietiche cercarono di spegnere la luce, di fare ombra sulle ragioni dei sacrifici di queste persone affinché l’oscurità continuasse a regnare. Chi morì a causa dell’oppressione fu descritto nei verbali della polizia e dei servizi come malato psichiatrico, furono aperti processi, le famiglie furono controllate dalle autorità per anni e spesso perseguitate.

La memoria è importante, specialmente in un periodo storico come quello che stiamo attraversando, che ci mette di fronte a tante sfide. La libertà non è scontata, ma anzi va preservata e difesa, anche se quando per farlo bisogna pagare un caro prezzo. Ce lo ripetono oggi i soldati ucraini e i giovani iraniani, soprattutto le donne, ma ce lo avevano già insegnato le torce umane del passato. Non lasciamo che questo messaggio resti inascoltato.

Ecco le loro storie.

RYSZARD SIWIEC (7 marzo 1909 – 12 settembre 1968)

Ryszard, impiegato polacco di 59 anni, era un conservatore, da sempre oppositore del regime comunista. La repressione della Primavera di Praga lo colpì profondamente. Poco prima del fatidico gesto, aveva registrato un messaggio in cui accusava l’Unione Sovietica di imperialismo e di voler scatenare una terza guerra mondiale. Si sacrificò l’8 settembre 1968 allo stadio di Varsavia, in occasione di un evento a cui erano presenti diversi dirigenti di partito e di oltre 100.000 persone. Aveva con sé una valigetta contenente una bandiera bianca e rossa, quella della Polonia, con la scritta: “Per la nostra e la vostra libertà. Onore e Patria”, e volantini riguardanti l’invasione della Cecoslovacchia. Non permise a nessuno di salvarlo, ma anzi si difese dalle persone che cercavano di spegnere l’incendio. Fu subito trasportato all’ospedale dalle forze di sicurezza sovietiche, che lo interrogarono più volte. Morì il 12 settembre.

VASYL MAKUCH (14 novembre 1927 – 6 novembre 1968)

«Abbasso i colonizzatori comunisti! Viva l’Ucraina libera! Gloria all’Ucraina!»
«Abbasso gli invasori della Cecoslovacchia!»

Vasyl, patriota ucraino, era un veterano della Seconda guerra mondiale: combatté il nazismo tra le fila dell’Armata Rossa e poi, appena terminata la guerra, si unì all’UPA, l’esercito ribelle degli ucraini. Per questa ragione fu catturato dal KGB e a lungo detenuto prima a Lviv e poi in un gulag in Siberia. Riuscì a tornare in Ucraina clandestinamente dopo l’esilio. Il 5 novembre 1968 si recò alle Poste Centrali di Kyiv per spedire una lettera di protesta in cui annunciava il suo gesto al comitato centrale del partito comunista dell’Ucraina. Si diede fuoco urlando slogan patriottici proprio davanti all’edificio, che si trova nell’attuale Piazza dell’Indipendenza di Kyiv. Morì la mattina successiva e il funerale si svolse sotto il controllo del KGB. La moglie e il resto della famiglia di Vasyl furono a lungo perseguitati dai servizi segreti sovietici. Il gesto di Vasyl riuscì a rinvigorire il movimento di dissenso della comunità Ucraina, sempre attaccata alle proprie radici e alla propria identità, che iniziò a esortare i cittadini a ribellarsi (ribellioni che furono sempre violentemente represse e che portarono all’arresto di molti ucraini). Nonostante le censure, infatti, tra i cittadini ucraini circolava la notizia del gesto di Makuch tramite un articolo anonimo dal titolo “In memoria di un eroe”. Sempre in segno di ribellione al dominio sovietico e alla russificazione forzata, altri ucraini si arsero vivi.

JAN PALACH (11 agosto 1948 – 19 gennaio 1969)

«L’uomo ha il dovere di lottare contro il male che sente di poter affrontare.»

La storia del giovane Jan Palach è molto conosciuta: il suo sacrificio fu l’unico di cui si ebbe notizia in tempo reale, e commosse tutto il mondo. Laureato in economia, aveva appena iniziato a frequentare lettere e filosofia, la facoltà dei suoi sogni, quando fu sconvolto dalla brutale repressione sovietica della Primavera di Praga. Intendeva compiere un gesto forte, per smuovere una sollevazione popolare e uno sciopero generale. Aveva già cercato, senza successo, di occupare la sede della Radio Generale cecoslovacca. Pensò così di sacrificarsi, compiendo il gesto estremo che tutti conosciamo. Decise così di darsi fuoco in Piazza San Venceslao, davanti a moltissime persone, dopo aver espresso le sue rivendicazioni in una lettera che diffuse in più modi: portò una copia con sé per farla leggere ai passanti, altre copie le spedì alla sede della Radio e a quella del Partito. Il gesto di Palach, come sappiamo, diede origine a uno sciopero della fame, e al suo funerale parteciparono decine di migliaia di persone. Si svolsero manifestazioni in tutta la Cecoslovacchia, a cui le autorità cercarono di reagire insinuando dubbi sulle ragioni del gesto di Palach sia tramite i canali dell’informazione che aprendo un procedimento penale in cui vennero avanzate diverse tesi allo scopo di falsificare la realtà.

SANDOR BAUER (21 febbraio 1952 – 23 gennaio 1969)

«Ai miei genitori: miei cari mamma e papà, Vi prego di perdonarmi se sono stato a volte un cattivo figlio. Vorrei continuare a vivere, ma la patria e il proletariato hanno bisogno del mio corpo carbonizzato. Cara nonna e miei amati zii e cugini, mando a tutti voi milioni di baci: Sanyi»

Sandor, ungherese, portava il nome del suo fratellastro fatto prigioniero dall’Armata Rossa e mai più tornato. Crebbe nutrendo grande rabbia per via delle molte sofferenze che furono inflitte a lui e ai suoi cari ed era sempre stato un bambino dal carattere piuttosto instabile. Nel 1956, quando aveva solo 4 anni, la casa della sua famiglia fu rasa al suolo dai carri armati sovietici; anni dopo non poté frequentare la scuola che aveva scelto perché fu selezionato al suo posto il figlio di un dirigente di partito. Era un adolescente con ideali leninisti, convinto che lo stalinismo non fosse altro che una degenerazione del vero comunismo, cosa che lo deludeva profondamente. Non appena venne a conoscenza della notizia dell’autoimmolazione di Jan Palach decise di replicare il suo gesto. Lo spiegò nelle ultime lettere che scrisse, una alla sua famiglia e una ai suoi compagni di scuola. Si autoimmolò il 20 gennaio 1969 davanti all’ingresso di un museo di Budapest; anche ai passanti e agli agenti di polizia che accorsero a spegnere le fiamme parlò di “un fratello ceco che aveva fatto la stessa cosa”. Morì 3 giorni dopo in ospedale, a soli 16 anni, in stato di arresto, e la famiglia fu costretta a seppellirlo in segreto.

JOSEF HLAVATÝ (4 dicembre 1943 – 25 gennaio 1969)

Josef era un giovane operaio di 25 anni. Anche lui imitò direttamente il gesto di Jan Palach. Era reduce da un brutto divorzio, sconvolto perché i bambini erano stati affidati alla sua ex moglie, e risulta che consumasse alcol molto frequentemente; su questo la polizia e i canali di informazione sovietici posero l’accento quando Josef si autoimmolò la sera del 20 settembre 1969 in piazza Dukelské a Plzeň (oggi Piazza T. G. Masaryk), dove prima dell’invasione sovietica si trovava il monumento alla Liberazione Nazionale, ricostruito solo nel 1989. In realtà, Josef aveva iniziato a interessarsi di politica a partire dalla Primavera di Praga, e specialmente a seguito della violentissima repressione sovietica. In effetti, dal rapporto straordinario dei servizi di sicurezza redatto il giorno successivo, risulta che: “Lo stato di salute è critico. Durante il trasporto all’ospedale, Hlavatý ha detto solo il suo nome e il suo indirizzo e, quando il medico gli ha domandato il motivo del suo gesto, ha risposto di averlo fatto per protesta contro i russi, perché i russi non gli piacciono.”

Inoltre, il verbale di conclusione delle indagini riporta quanto segue: “Fu molto attivo nell’agosto del 1968. Visse per un periodo alla sede di Radio Cecoslovacchia a Plzeň e partecipò ad atti di sabotaggio, come la rimozione di segnali stradali e la scrittura di slogan antisovietici sui muri. Da quel momento cominciò ad avere un atteggiamento ostile all’URSS, mentre prima ne era simpatizzante, come i suoi genitori. Negli ultimi giorni di vita Hlavatý era più malinconico del solito, non si sa se per il divorzio o per la grossa impressione suscitata dal caso di Palach. Comunque, non parlò mai di quest’ultimo alla famiglia e agli amici.” Il gesto di Josef, dopo quello di Palach, indusse le autorità sovietiche ad avviare una campagna mediatica per incoraggiare i cittadini a non ripetere le stesse azioni, descritte come gesti folli e irrazionali; risulta però che vi furono altre tredici immolazioni nel solo territorio della Cecoslovacchia.

JAN ZAJÍC (3 luglio 1950 – 25 febbraio 1969)

«So quale ferita io vi porto con questo gesto, ma non adiratevi con me. Non lo faccio perché mi nausei la vita, ma proprio perché la stimo troppo. Con la mia azione forse vi assicuro un migliore destino. Conosco il prezzo della vita e so che è il più grande che ci sia. Ma io voglio molto, e perciò devo pagare molto. Dopo la mia azione non cedete alla grettezza. Non dovete mai conciliarvi con l’ingiustizia, qualunque essa sia. La mia morte vi lega a questo impegno.»

Jan era un giovane studente di un istituto tecnico; sua padre era liberale e sua madre lo aveva educato secondo la tradizione cristiana; era sempre stato molto appassionato di politica e dal 21 agosto 1968 si era unito ai resistenti contro l’occupazione sovietica. Dopo la morte di Jan Palach si recò a Praga per partecipare al suo funerale e alle manifestazioni che seguirono. Dalla lettera di Palach risultava che, se le sue richieste non fossero state accolte entro 5 giorni, un’altra torcia umana si sarebbe accesa. Ciò non avvenne; per questo Jan decise che sarebbe toccato a lui essere la torcia umana numero 2. Tornò a Praga un mese dopo e il 25 gennaio si arse vivo in un edificio di Piazza San Venceslao. Morì sul posto, lasciando un appello alla Nazione Cecoslovacca: «Nonostante la protesta di Palach, la nostra vita sta tornando sui suoi vecchi binari e per questo ho deciso, come Torcia umana n° 2, di risvegliare la vostra coscienza. Non lo faccio per essere compianto o per diventare famoso, né perché sono impazzito. Ho deciso di compiere questo gesto perché vi facciate coraggio e non permettiate a quattro dittatori di calpestarvi! Ricordate: quando il livello dell‘acqua arriva sopra la testa, non conta quanto in alto arriva… Che la mia torcia illumini il cammino verso la libertà e la felicità della Cecoslovacchia. (…) Solo così continuerò a vivere»

Nonostante il suo gesto avesse avuto un’eco minore rispetto a quello di Jan Palach, al suo funerale parteciparono migliaia di persone, tutte ben consapevoli delle motivazioni politiche che lo avevano spinto a sacrificarsi.

EVŽEN PLOCEK (29 ottobre 1929 – 9 maggio 1969)

Operaio e papà, era iscritto al Partito Comunista cecoslovacco ed era politicamente molto attivo, vedeva con entusiasmo la Primavera di Praga e il processo di riforma del sistema socialista in senso più liberale. Il suo atteggiamento cambiò a seguito della dura repressione e dell’atteggiamento succube del suo partito; l’evento determinante fu la censura del settimanale “Politika”. Si arse vivo il 4 aprile 1969, Venerdì Santo, in una piazza nel centro di Jilhava, dopo aver esposto sul suolo cartelli recanti le scritte: “Sono per il volto umano, odio l’insensibilità” e “La verità è rivoluzionaria” (citazione di Antonio Gramsci). Il gesto ebbe risonanza solo a livello locale: al funerale parteciparono circa 3000 persone, ma i media sovietici censurarono la notizia della sua morte, che quindi non si diffuse.

ELIYAHU RIPS (12 dicembre 1948)

«Qualcuno deve dimostrare che non è possibile mettere a tacere tutti.»

Ilja Aronovič Rips nacque in una famiglia ebrea di Riga. Era uno studente eccellente, fu ammesso all’università alla facoltà di matematica con alcuni anni di anticipo, dopo aver partecipato a diverse competizioni internazionali. Nel ’68 seguì con passione gli eventi di Praga; fu poi mandato a fare il servizio militare a Kaliningrad e, suo malgrado, l’unità dell’esercito di cui faceva parte invase la Cecoslovacchia; la repressione militare lo deluse profondamente. Anche lui si ispirò al gesto di Palach, ma non con l’intenzione di scatenare proteste popolari: «No, era la mia protesta personale, con cui non volevo scatenare nulla. Il mio gesto ha avuto origine da una totale amarezza. Ho smesso di credere che il comunismo potesse crollare, come poi in realtà è avvenuto in seguito Tentò di autoimmolarsi a vent’anni, il 13 aprile 1969 davanti al Monumento alla Libertà di Riga, esponendo uno striscione con su scritto, in russo: “Protesto contro l’occupazione della Cecoslovacchia”. I passanti riuscirono a intervenire e a spegnere le fiamme immediatamente, quando le ustioni non erano ancora molto gravi, salvandogli la vita. Tra loro vi era un agente del KGB, che portò via Ilya per interrogarlo. Poco dopo fu internato in una clinica psichiatrica, e poi ancora espulso dall’università, arrestato e tradotto in carcere per aver compiuto attività antisovietiche. I giudici lo dichiararono schizofrenico e lo fecero nuovamente internare nell’ospedale psichiatrico. Fortunatamente Ilya riuscì a mantenere contatti con la famiglia e, anche grazie all’intervento di un dissidente, il Congresso internazionale di matematica venne a conoscenza della sua storia e la comunità internazionale dei matematici fece pressioni per farlo dimettere, con successo. Nel 1971 Ilya riuscì a emigrare in Israele, dove assunse il nome Eliyahu, e a terminare gli studi. Oggi è un importante matematico ed è docente dell’Università Ebraica di Gerusalemme.

ROMAS KALANTA (22 febbraio 1953 – 15 maggio 1972)

Romas amava leggere romanzi, suonare la chitarra e dipingere; era molto preso dal movimento hippie, piuttosto popolare tra i giovani lituani. Era anche un fervente cattolico e valutava la possibilità di entrare in seminario. Quando frequentava il liceo, durante un corso di storia criticò il marxismo; entrato in conflitto con la sua scuola, non riuscì a superare l’esame di maturità e cominciò a lavorare in fabbrica. Grazie alle trasmissioni radiofoniche venne a conoscenza del sacrificio di Jan Palach e decise di seguire il suo esempio. Si sacrificò di fronte al Viale della Libertà della città di Kaunas, di fronte al teatro, il 15 maggio 1972, lasciando un taccuino con su scritto: “Accusate il regime totalitario della mia morte”. Secondo alcuni testimoni urlò: «Libertà per la Lituania!». Morì il giorno successivo. La famiglia fu costretta dalla polizia sovietica ad anticipare il funerale; questo suscitò un’ondata di proteste e il corteo funebre del ragazzo si trasformò in una manifestazione antisovietica, a cui parteciparono moltissimi giovani, che fu repressa molto duramente. Altre torce umane in Lituania emularono il gesto di Romas.

OSKAR BRÜSEWITZ (30 maggio 1929 – 22 agosto 1976)

Oskar dovette combattere nella Wehrmacht contro l’Armata Rossa e fu fatto prigioniero di guerra. Riuscì a tornare dalla prigionia nel 1945 in Germania Ovest, dove lavorò come calzolaio finché, tre anni dopo, non si trasferì nella Germania dell’Est. Lì si sposò e mise su famiglia, studiò teologia, di cui era appassionato, e completò il seminario, diventando un pastore evangelico. Oskar attirò l’attenzione della Stasi, da cui fu perseguitato perché, come guida spirituale, era molto attivo nel contrastare il progetto comunista di ateizzazione forzata della società. Era riuscito a riunire una nutrita comunità di fedeli e a coinvolgere anche i bambini e i ragazzi. In risposta allo slogan di partito “Anche senza Dio e senza il sole porteremo a casa il nostro raccolto” scrisse sul suo calesse: “Senza pioggia e senza Dio manderete in bancarotta il mondo intero”. Era arrabbiato allo stesso modo anche con la Chiesa, che non faceva abbastanza per aiutare i fedeli soggetti al regime comunista. Decise di sacrificarsi il 18 agosto 1976 davanti a una Chiesa nel centro di Zaitz, dopo aver esposto uno striscione con su scritto: «Radiogramma a tutti, radiogramma a tutti, la chiesa della Repubblica Democratica Tedesca denuncia l’oppressione di bambini e giovani nelle scuole da parte del regime comunista!». Morì quattro giorni dopo. Il suo sacrificio non provocò alcuna sollevazione popolare, ma indusse tanti abitanti della Germania dell’Est ad attivarsi di più e a partecipare alle attività ufficiose della Chiesa.

MUSA MAMUT (20 febbraio 1931 – 28 giugno 1978)

«Quello che ho fatto non rimarrà senza risposta.»

Musa nacque in Crimea in una numerosa famiglia di pastori tatari. I tatari di Crimea erano accusati dal regime sovietico di “collaborazione con i nazisti”; per questo tutta la famiglia di Musa fu deportata in Uzbekistan, dove molti dei suoi fratelli morirono di stenti. Quando, nel 1967, fu revocato l’esilio, Musa tornò in Crimea, dove però continuava ad avere problemi con le autorità, sempre a causa della sua etnia. Come accadeva anche agli altri tatari, gli fu negata la residenza e fu processato e condannato ripetutamente perché clandestino. Il 23 giugno 1978, quando per l’ennesima volta gli agenti di polizia si presentarono a casa sua per prelevarlo, Musa si arse vivo davanti a loro, subito dopo aver aperto la porta. All’ospedale ripeté più volte di essersi dato fuoco per protestare contro le persecuzioni dei tatari e il loro esilio dalla Crimea. Morì cinque giorni dopo. La sua protesta ebbe grande risonanza nella comunità dei tatari, che cercarono di attivarsi e di attirare l’attenzione della comunità internazionale.