Quer pasticciaccio brutto daa società multietnica europea in piena crisi geopolitica (Oddio, sarò mica diventato razzista??)

Mala tempora currunt (diceva mio zio Tano picchiatello che pensava di essere la reincarnazione di Bernacca), se riflettiamo sul nostro vecchio Occidente liberale, progredito e progressista.
Lo pensiamo in molti.
Lo ha detto pure il Parroco nella predica domenicale a cui non assisto da oltre un quarantennio.
Anche il maresciallo della Stazione dell’Arma (già Regia Tenenza), sorseggiando il caffè nel Bar del piazzale della Chiesa, non esprime più la stessa sicumera nell’emettere il risucchio necessario per lenire il palato ustionato.
Sono tante le vicende geopolitiche che ci ricordano come fosse una fesseria quella storia della “fine della storia”.
La guerra d’invasione russa in Ucraina. I progetti bellici russi, paventati da alcune inchieste, sulla nostra vecchia Europa.
Sì proprio lei: la vecchia Europa bullizzata a Est come ad Ovest da “The Donald” (eh no che non ti difendo più..)
L’eterno conflitto in Medio Oriente, il recente massacro del 7 ottobre, Gaza e quant’altro.

Tuttavia, mentre i nemici del nostro caro Occidente sono dei monoliti d’intenti nelle loro azioni ostili, noi vacilliamo nel preoccuparci e nel reagire e, nel vacillare, ci preoccupiamo delle nostre reazioni.
“Monoliti” dicevamo o almeno così li percepiamo, questi paesi e questi popoli, quando materialmente ci attaccano o formalmente minacciano, come fossero un solo uomo o una sola donna (e per forza direte sono dittature inumane che fondano il loro potere sul terrore e sul sangue).
Noi, qui nei nostri Bar social, non possiamo essere certi se sia davvero così, non sappiamo se siamo davvero tanto odiati e disprezzati e in che numeri, ma sappiamo di certo che “monoliti” noi, paesi occidentali, non lo siamo di certo.
Anzi, le nostre società sono diventate così “aperte” che quando la nostra integrità e la nostra sostanza civile sono minacciate, non solo ci interroghiamo sul perché, il percome e il perqualunque, ma esprimiamo, a vario titolo e forma, opinioni e compiamo azioni politiche prossime ed utili a chi ci vorrebbe, se non annichilire, assoggettare o indebolire.

La Russia annetteva la Crimea nel 2014? Ed ecco che si formava una coda lunghissima di movimenti politici e sedicenti leader che non solo esaltavano “Il destino di uno Zar” (Sangiuliano cit.), ma che, in concreto, contestavano e boicottavano le sanzioni internazionali comminate dall’Occidente alla Russia (poi qualcuno si è pure fatto corrompere, ma la materia umana, si sa, è corruttibile).
La Russia invadeva l’Ucraina? Spuntavano i negazionisti, celebri o meno, i benaltristi, i pacifisti con i territori degli altri e i colpadellanatoisti, guarda caso esprimendo convincimenti utili al Cremlino.
Hamas trasformava in realtà i peggio incubi horror nei Kibbutz israeliani?
Arrivava, accigliato se non inorridito, chi ci spiegava, con dovizia di particolari storico-geografici, che il 7 ottobre “non è venuto da solo” (infatti c’era la Regia degli Ayatollah, ma temo che non si riferissero esattamente a questo).
Un governo insurrezionale di trogloditi religioso-militari (Houthi), tali da far sembrare Pinochet un liberal-femminista, attacca le rotte commerciali? Ed ecco spuntare i manifestanti occidentali orgogliosi di questa banda di teocratici medievali che fa perdere profitti e impennare i costi della logistica, generando aumento dei prezzi e, per effetto a catena, creando povertà.
E la povertà, ahinoi, è di classe: colpisce i più deboli, li indebolisce ulteriormente e ne rimpingua le fila, mai dimenticarlo.

Ma non sono solo i governi e i leader occidentali di buona volontà a preoccuparsi (o a non preoccuparsi se ciò aiuta nei sondaggi).
Ci siamo anche noi: singoli liberali, progrediti e progressisti.
Mi raccomando – però – in pubblico non confondete mai liberali e progressisti, può capitare che chi si auto-annoveri in una delle due categorie si indigni di tale mescolanza e vi aggredisca mortalmente.

Noi ci inquietiamo – ovvio – per questa ultima tendenza geopolitica del mondo a incasinarsi, forse proprio perché sfiduciati sugli esiti della “storia che no che non è morta” e ci guardiamo attorno, interrogandoci se questa società aperta e multietnica che, armati di cazzuola, malta e buone intenzioni, abbiamo eretto senza un geometra progettista che ci guidasse, non ci si stia ritorcendo contro.

In particolare, tale struggimento di pensiero ci afferra quando osserviamo (dalla finestra e senza farci scorgere) le manifestazioni “Propal” che in alcune città europee declinano in veri e propri comizi da pan-islamismo e ci chiediamo “ma abbiamo fatto bene?” o, meglio, “ma che cazzo abbiamo combinato?”.
Come se fossimo stati noi o i non meno piccoli governanti a muovere le fila della Storia mondiale.

Narcisismo buffo a parte, il nostro è un vissuto sincero, lacerante per quanto controverso.
Da un lato, percepiamo e rincorriamo l’istanza di essere coerenti con noi stessi e, pertanto, di garantire la libertà di religione e la tolleranza.
Dall’altro ravvisiamo nubi sinistre incombere sui medesimi valori di libertà e tolleranza, nubi, quando non degenerano in rovesci di cronaca, quale l’intimidazione rappresentata dalle frange religiose più estremiste e conservatrici che si oppongono ai costumi occidentali e ai valori di laicità, nonché alla parità dei diritti civili tra gli individui.
Tali argomenti, più grandi di noi, potrebbero raccontarli meglio, ad esempio in Francia, Samuel Paty o Mila Orriols, ma il primo ne è impedito essendo stato ucciso da un fanatico ceceno mussulmano e la seconda, comprensibilmente, preferisce non esporre, al pubblico, la sua nuova identità assegnatale per le minacce degli islamisti, come se fosse il testimone oculare lombardo che vide giustiziare il giudice Rosario Livatino.
Certo, quando occorrono questi drammatici episodi di cronaca, l’emotività presenta il conto alla ragionevolezza e la rabbia si fa beffe dei nostri migliori sentimenti.
Passata la tempesta emozionale, tuttavia, ci ricomponiamo – ed è un bene – ma spesso, troppo di sovente, rimuoviamo freudianamente l’apprensione e ciò che la causa, così che la stessa si ripresenta sempre più prepotente assistendo alla cronaca del prossimo di fatto di sangue.
E ci domandiamo ciascuno: ma sarò mica diventato razzista per preoccuparmi di questi problemi?

Che fare quindi?
Non abbiamo risposte certe, diremmo piuttosto “linee guida”; innanzitutto, potremmo provare ad essere noi stessi o almeno quello che ci siamo sempre raccontati di essere: razionali e realisti, non siamo tutti figli dell’illuminismo? (Vabbè, dai, almeno parenti, va bene, alla lontana).
Potremmo e dovremmo quindi documentarci e riflettere, tanto da individui e, nel nostro contributo in esse, quanto da partecipi a formazioni sociali e politiche.
Se leggessimo ricerche, dati e sondaggi, potremmo concludere che il futuro prossimo non è ancora quello romanzato da Michel Houellebecq o argomentato da Douglas Murray, ma, al contempo, non è quello propugnato dai multiculturalisti “comunitaristi” come Charles Taylor e, certo, non è quello, tratteggiato dalle giovani marmotte parrocchiali, dai circoli milanesi del PD o dai centri sociali.
Insomma, gestiamola ‘sta benedetta emotività, altresì, al contempo, non perdiamoci in un ottimismo irrazionale: la posta in gioco è la nostra società e quella che lasceremo ai nostri figli.

Ad ogni buon conto, la domanda nodale è sempre la stessa ed è quella formulata, meglio e in maniera meno autoreferenziale, dal pensatore liberale John Rahms: come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili?
Non vi è risposta, anche se pensatori liberali hanno provato a teorizzarne alcune.
Kymlicka, ad esempio, ha sostenuto come congruo il riconoscimento di diritti (ma sarebbe meglio parlare di tutele) “collettivi” alle minoranze vada sì concesso, ma calibrato a seconda della tipologia di richieste e negate se avanzate da minoranze particolarmente illiberali.
L’autore distingue tra due tipi di pretese avanzabili da una minoranza:
tutele esterne cioè verso le minacce esterne che lo stato dovrebbe garantire in quanto proteggono la sua esistenza da certe decisioni, potenzialmente intrusive, della maggioranza, intollerabili (ad es. divieto di culto), tutele che ci paiono accettabili;
tutele interne che, per salvaguardare l’integrità culturale della minoranza, sanzionerebbero dissensi interni o diserzioni interne, tutele che ci si presentano inammissibili in quanto contrastanti con uno stato di diritto liberale (legittimare, ad esempio, un ordinamento giuridico parallelo consuetudinario o formalizzato che restringe diritti individuali ritenuti assoluti per la maggioranza).

Convincente?
Qualche dubbio rimane, innanzitutto perché questo autore arriva a tali conclusioni partendo da alcune premesse, la più importante è che secondo lui, le minoranze sono composte da individui che vogliono in buona parte integrarsi, poiché hanno abbandonato il proprio paese di origine in maniera volontaria, facendo discendere la tendenziale disponibilità degli immigrati ad integrarsi dalla volontarietà del processo migratorio.
Sembra ragionevole, ma se l’integrazione non riesce, certo per responsabilità politica, e le minoranze finiscono con l’essere marginalizzate?
Ahinoi, sta accadendo proprio questo: le seconde generazioni sembrano voler recuperare le loro originalità etnico religiose, proprio nei loro orientamenti più incoerenti con il mondo libero, in maniera reattiva, per identificarsi e affermarsi in una società che pare loro non averle accolte, rafforzati in ciò da predicatori e organizzazioni spesso non esattamente fedeli al paese che li accoglie.
Tuttavia, in questa sede non si vuole (e non si può) fornire valutazioni sulle disamine e le relative soluzioni politiche e sociologiche del fenomeno, ma solamente cercare una linea guida per la propria coscienza di persona, appunto, liberale, progredita e progressista e il pensiero di Kymlicka può aiutare in tale senso.

Pertanto, questo approccio, razionale e liberale, potrebbe quantomeno aiutarci come bussola personale per orientarci tra gli schizzi di fango del dibattito politico.
Se fossimo liberali e/o progressisti (ripeto, non equiparateli in pubblico, mi raccomando: è PERICOLOSO), dovremmo avere posto dei pilastri a fondamento del nostro edificio ideale: diritti fondamentali irrinunciabili; primato dell’individuo; comprensione del diverso e non senso di superiorità perché sono i nostri valori, e non noi che li abbiamo ereditati, ad essere luminosi em infine, giustizia, equitas, nel caso concreto.

Sarò mica diventato razzista, quindi?
No, non è razzismo ritenere illecite pratiche come l’infibulazione o il matrimonio combinato, anzi lo è (razzismo) se tollero tali abomini se commessi tra persone appartenenti ad una minoranza etnica.
Pensare Che me frega tanto lo fanno tra de loro sti servaggi non è tanto diverso da è la loro cultura, noi non possiamo giudicare, non abbiamo il monopolio del giusto. Questo è razzismo.
Raccontaglielo ad una “sposa bambina” mentre viene stuprata dal marito quarantenne che è la loro cultura o alla moglie innamorata del marito poligamo che soffre le pene dell’inferno della gelosia quando lo stesso è virilmente indaffarato con la seconda moglie più giovane o, ancora, raccontateglielo alla quindicenne cresciuta in Italia impedita dal padre ad uscire con il suo ragazzo, perché va preservata l’integrità della loro cultura.
Non è razzismo quando concediamo all’insegnante francese di poter didatticamente spiegare la libertà di espressione e di satira, lo è (razzismo) quando glielo impediamo, non per tutelare una minoranza di persone a noi pari, ma per paura di una possibile loro reazione bestiale, perché non li consideriamo pari a noi, ma, appunto, bestie.
Non è razzismo perseguire fermi la nostra vista ideale del mondo, non in quanto depositari di storia millenaria, germoglio di radici cristiane bla bla bla, ma in quanto riteniamo che essa sia la migliore possibile per tutti e con tutti la vogliamo condividere.

Ma ciò non significare diventare altro, trasformarci in vandeani o nazionalisti per difendere un preteso Occidente ideale dalle orde di “barbari barbuti”, perché cosi ragionando i fili illiberali della barba dell’intolleranza riempirebbero il nostro volto e quell’Occidente tanto ideale poi non sarebbe.
Essere noi stessi, essere razionali, essere giusti, essere liberi e pretenderlo per sé, nonché promuoverlo per gli altri, poiché non abbiamo, personalmente, altra strada che quella sconnessa e scivolosa del bilanciamento di diritti ed interessi degli individui.

In un contesto diverso, solo in parte sovrapponibile, il senso di quello che malamente ho provato scrivere viene bene espresso da un dialogo del film “Munich” di S. Spielberg.
Avner: Vinceremo un giorno. Ci metteremo anni ma li sconfiggeremo.
Robert: Noi siamo ebrei, Avner. Non facciamo del male perché lo fanno i nostri nemici.
Avner: Non possiamo più permetterci di essere tolleranti.
Robert: Non so se siamo mai stati tanto tolleranti. Patire mille anni di odio non fa diventare tolleranti… però dovremmo essere giusti. Questo è bellissimo, questo è essere ebrei! E questo che sapevo, che mi è stato insegnato. E adesso lo sto perdendo. E se lo perdo questo… questo… questo è tutto! È la mia anima.