Gira da stamattina il video di un battibecco andato in onda ieri sera 11/9 a Quarta Repubblica tra Chicco Testa, presidente di Assoambiente, e un’attivista di Ultima Generazione, il gruppo di giovani ambientalisti che ultimamente si è fatto conoscere per le intemerate rivolte contro monumenti e palazzi storici. Vi lascio il link così che lo possiate vedere.
Lo scambio accalorato ha generato molte reazioni su Twitter (no, non lo chiamo ancora X), ve ne lascio una a caso. Leggete anche i commenti, sono le cartine di tornasole di cosa sia diventato il dibattito pubblico in Italia nel 2023.
Un aspetto dal video risulta subito chiaro, ovvero che c’è tanta confusione in giro. I fatti duri: l’Italia non investe neanche un euro pubblico nelle fonti fossili, eppure, in vari circoli ambientalisti autodafè risulta tra i maggiori finanziatori, addirittura, al mondo.
Dove sta la realtà? O meglio, dove e perché s’inceppa il meccanismo divulgativo? In altri termini, quanto è complessa, o se preferite, accessibile la verità a tutti?
Andiamo per ordine, partendo dai protagonisti: in Italia chi si occupa di sviluppo delle fonti energetiche, fossili e non, è l’ENI S.p.A.. Da quando è stata privatizzata, ENI è una normale società di capitali e il fatto di essere controllata dallo Stato (attraverso MEF – Ministero dell’Economia e delle Finanze – e Cassa Depositi e Prestiti) per circa il 30% non la rende in alcun modo pubblica. E, soprattutto, non vuol dire di per sé che lo Stato infonda risorse pubbliche nelle attività operative del gruppo.
Anzi, come azionista, lo Stato di risorse da ENI ne riceve, sotto forma di remunerazione dell’investimento, ogni qual volta l’azienda decida di distribuire gli utili. Per tacer poi dei 40 Miliardi di € in tasse citati nel video.
Questi duri fatti bastano per dire che Chicco Testa ha ragione e l’attivista di U.G. torto? A voler essere proprio onesti, no, bisogna andare un po’ più a fondo e capire da dove nasce il busillis dell’Italia tra i maggiori finanziatori di progetti fossili al mondo.
Ah, saperlo! Però, cercando velocemente in rete, qualcosa si trova. Ad esempio, questo report del think tank green Oil Change International che trovate qui e che cita un’analisi, sempre dello stesso istituto, qui.
L’ho visto per voi: il nostro paese è riportato in 8 righe della tabella per un totale (laddove l’ammontare dell’investimento è conosciuto) di 2,5 Miliardi di $.
Mettiamo un attimo da parte le cifre che davvero sono l’ultimo dei dettagli che ci interessa. L’informazione su cui concentrarci, invece, è presente sulla prima colonna della tabella e in particolare tra le parentesi dopo il nome del paese, cioè, per l’Italia, su un soggetto di nome SACE.
Ammesso di essere arrivati, con fatica, a questo livello di analisi, per i non addetti ai lavori è lecito cominciare a perdersi: cos’è SACE e perché è inserita in questa lista?
Una facile ricerca su web ci dice che SACE è un gruppo di società (di nuovo, soggetti di diritto privato) che opera nel campo delle assicurazioni del credito e protezione degli investimenti per tutte le imprese italiane, senza distinzioni di dimensione o di settore di attività. In sostanza, le società italiane che hanno crediti o effettuano investimenti, soprattutto all’estero, attraverso gli strumenti messi a disposizione da SACE si tutelano dall’inesigibilità dei primi e dal fallimento dei secondi.
Lungi dall’esserci qualcosa di strano sotto, la pratica di assicurazione contro i rischi che si possono incontrare nell’esercizio delle proprie attività di business rientra a buon diritto tra quelle di gestione oculata delle risorse finanziarie di un’impresa.
Esempio: ENI investe 1 euro nell’estrazione di gas in Papuasia inferiore. Per arrivare a disporre di quella cifra, l’azienda magari deve richiedere un prestito sul mercato. Il mercato chiede garanzie, esattamente come chiede a qualsiasi privato cittadino che voglia accendere un mutuo di mettere a garanzia l’immobile oggetto del finanziamento, e per fornirle ENI si rivolge a SACE.
SACE è controllata al 100% dal MEF, ma, di nuovo, il fatto che sia controllata dal pubblico non ne fa un soggetto pubblico e, soprattutto, non vuol dire automaticamente che le risorse impiegate per la normale attività assicurativa siano risorse pubbliche (aka risorse da iscrivere a deficit).
E infatti, non lo sono, perché quelli che avete visto nel prospetto di cui sopra, al massimo sono soldi di ENI coperti dalla garanzia dello Stato attraverso SACE. L’effettivo esborso (specifichiamo di nuovo, di soldi fino a prova contraria non pubblici) avverrà se e solo se sarà necessario coprire un eventuale insoluto.
Che morale traiamo da questa vicenda? Ammesso che la mia ricostruzione sia corretta ed esaustiva, per completarla ho impiegato un quarto d’ora circa. La nostra attivista di @UltimaGenerazi1 avrebbe potuto fare altrettanto e arrivare preparata all’incontro che a quel punto avrebbe potuto prendere una piega totalmente diversa e magari, una volta tanto, avvicinarsi al concetto di “servizio pubblico”.
Non contemplo in lei però la malafede che molti dei commenti al tweet iniziale hanno riportato: i meccanismi di governance aziendale, giuridici, economico-finanziari che si muovono dietro le quinte di queste fattispecie obiettivamente non sono alla portata di tutti se non addetti ai lavori o studenti in materie economico-giuridiche. E ciò, se da un lato non vuole essere una scusante per andare in TV impreparati, dall’altro bisogna ammettere che dà spazio ad agitatori di professione e pressappochisti vari per raccontare realtà parallele a proprio uso e consumo. Narrazioni tossiche, sabbia che poi il pubblico (entità fumosa che comprende anche gli attivisti di Ultima Generazione) tranquillamente berrà pensando che sia acqua. Possibile? Sì, se non si è mai assaggiata l’acqua.
C’è anche da aggiungere che le privatizzazioni all’italiana di ex-monopolisti sono macchiate da parecchi vizi e ad oggi, lungi dall’essere delle public company con governance indipendenti dalla politica, sono ancora massima espressione dello spoil system. Anche qui, però, ci sarebbe poco da ridire, se non fosse che i criteri di scelta spesso lasciano, diciamola così, a desiderare: lo Stato è azionista qualificato di questi soggetti e ha il diritto di sceglierne la guida.
Un ultimo dubbio però vi sarà rimasto: ma alla fine ENI i sussidi pubblici, anche se non li impiega in progetti di sviluppo delle fonti fossili, li prende o no? Una risposta esaustiva è difficile da dare, però possiamo dare un’occhiata a come funzionano tali sussidi che spesso vengono erogati dalla società SIMEST (gruppo CDP, di nuovo, quindi, una società di diritto privato) che li ottiene a fronte di fondi destinati nazionali (i soldi pubblici propriamente detti) o dell’UE (soldi pubblici, ma europei, quindi in parte anche italiani). *
Ok, ma ENI? Mettiamola così: uno può pure agitarsi dietro al “follow the money”, ma il fatto che non si possa legare quelle somme pubbliche eventualmente percepite ai progetti di sviluppo di fonti fossili, alla fine vuol dire poco perché la moneta è bene fungibile per eccellenza e dimostrare che il sussidio sia stato usato solo per progetti “virtuosi”, altro non è che un artificio contabile. Ammesso che i progetti incriminati virtuosi non lo siano, e non è vero! Anzi…
ps: permettetemi una cattiveria. Avete presenti i commenti al tweet iniziale? Ecco, secondo me un buon 90% di quelli che hanno dato addosso all’attivista non hanno la minima idea del perché stiano dando ragione a Testa. Tale è il livello del dibattito pubblico in Italia nel 2023.
* il paragrafo è stato redatto con l’aiuto di Paola Mazzucchelli (seguitela qui su Twitter) che ringrazio per aver messo a fattor comune la sua conoscenza in materia.