Il 7 aprile 2022 è andata in onda un’ importante intervista del giornalista Mark Austin all’addetto stampa del Cremlino Dmitry Peskov, per Sky News.
Al di là del merito delle informazioni scambiate, mi è balzata agli occhi una struttura generale, un canovaccio, che almeno alla mia attenzione naïve risulta inedito su questa scala e portata. Perciò, vi ho dedicato qualche ulteriore pensiero, che di seguito propongo.
Peskov ieri ha svolto una narrativa che dal punto di vista razionale non è possibile ignorare, nel senso che non abbiamo il lusso di quel tipo di sicurezza che viene da prove schiaccianti, da una conoscenza completa dei “fatti”. Le nostre prove sono parziali, il quadro incompleto.
Il regime di parzialità dell’informazione è tutto sommato la condizione più frequente e Homo sapiens sapiens non si scoraggia: ricorre ad altri principi generali che dovrebbero assicurare una certa garanzia di verità: Occam, probabilità, verosimiglianza, cui prodest eccetera.
Il ricorso ai first principles – cosa che personalmente mi è molto cara – e che spesso è assolutamente idonea, costituisce d’altra parte secondo me un metodo “di secondo livello” rispetto ad un’individuazione del concreto, ineludibile “fatto”, nella sua granitica solidità.
Ne facciamo largo uso ma nel caso in specie, che è di una gravità quasi incomprensibile, tocca la vita e la morte di nostri fratelli e, in prospettiva, forse la nostra, mi appare subottimo. Essendo così importante la posta in palio, anche una modalità di individuazione del “vero” che normalmente ci va benissimo, ad alcuni può risultare insufficiente. In certo senso, sono tra quelli. La presenza di versioni discordanti, delle quali tuttavia non posso escludere l’una in maniera pienamente soddisfacente (secondo i miei personali parametri, s’intende), mi lascia psicologicamente debilitato. Triste, sconfitto.
Non totalmente, in realtà: superato un certo limite, trovo naturale prendere posizione e i dubbi che abitualmente coltivo cessano di essere priorità. Ma il concorso di una situazione estremamente grave e della difficoltà a stabilire suoi elementi inequivocabili rende lo scenario ben lungi dall’essere ideale.
Questa premessa è per introdurre un abbozzo di pensiero che sviluppai in quello Strumento del Signore che sono le chat di Twitter e che credo abbia una relazione con lo spettacolo cui abbiamo assistito nell’intervista, nel momento in cui sentiamo il bisogno di stabilire “i fatti”, ciò che è alla base di qualsiasi tipo di relazione umana.
L’idea che esista una verità assoluta – per ragioni di evidente limitatezza del nostro ambito operativo e facoltà – mi pare sostanzialmente insostenibile. In certi termini, proprio non avrebbe senso parlare di “Verità” perché è un concetto al quale aneliamo, che teoricamente riusciamo a sbozzare ma che poi, quando lo si guarda da vicino, andando a scavare, diventa un generatore di problemi logici e semantici, specchio appunto delle nostre limitate capacità intellettive e di elaborare un framework di pensiero pienamente coerente.
Detto questo, io proponevo un concetto di questo tipo: a fronte di una verità oggettiva irraggiungibile e per certi versi nemmeno definibile, si può invece, come processo limite, addivenire ad una “verità praticamente oggettiva”. Cosa intendo? Parlo di una verità concordata, una visione che ci accomuna tutti, o perlomeno la stragrande maggioranza di noi. Il motivo per cui ritengo questo processo possibile è il fatto che, parafrasando Kant, condividiamo tra gli uomini le stesse strutture di base del pensiero. Ciò che per esempio ha permesso di sviluppare la Geometria Euclidea a partire da assiomi, verità ritenute evidenti che non è necessario (ma sarebbe impossibile) dimostrare. Possiamo chiamare questo denominatore comune razionalità, e pensare che, posto che gli input (gli stimoli, se volete) a due di noi siano gli stessi, le conclusioni a cui arriveremo a saranno molto vicine tra loro, ossia praticamente coincidenti.
Si noti – e mi si perdoni – l’assenza di qualsiasi tentativo di approccio rigoroso e di definizione dei termini utilizzati: siamo nell’ambito del puro sproloquio intuitivo.
Dunque il denominatore razionale è ciò che permette, con un agile passaggio al limite (ossia, come trend la cui caratteristica temporale non è specificata ma non si misura in anni: piuttosto secoli e millenni), di pensare che lo stabilirsi sempre più diffuso di una serie di “verità praticamente oggettive” sia un destino per Homo sapiens sapiens.
Ma ecco il plot twist!
Avemmo qualche scambio su questi temi in chat, in concomitanza con l’arrivo nel gruppo del nostro Presidente Stefano Putinati. Ricordo che lui propose un’ interpretazione che mi colpì, sia per l’autorevolezza della fonte, sia perché era molto distante, vorrei dire antitetica, alla mia.
L’ approccio di Stefano (spero di non fargli troppo torto, questo è ciò che ricordo dello scambio) è che l’uomo non è tanto razionale quanto, per dirla à la Phastidio, razionalizzante. Ossia, si racconta delle storie – Stefano parlava di narrazioni – rispetto alle ragioni per cui ha fatto ciò che ha fatto. Una specie di “cosa fatta, capo ha” di livello subliminale.
A questo punto, in dipendenza da ciò che (ci) si narra, si può giustificare (ossia: rendere giusto, ma anche vero) tutto e il contrario di tutto. Non esiste infatti secondo questo modello un riferimento condiviso e nello stesso tempo “terzo”. Ovviamente ci si addensa, ci si raggruppa attorno ad una certa narrazione, che così diventa “localmente oggettiva”, ma il denominatore comune in questo modello sembra più un accidente che non un ente.
Laddove io ravvisavo un denominatore comune ineludibile, scomodo, sottoutilizzato, sottosviluppato quanto si voglia ma terzo rispetto alle nostre passioni e debolezze, la ragione appunto, Stefano riconduceva tutto, invece, alla narrazione. In sostanza, si perde l’idea di un riferimento newtoniano, un etere fermo e un tempo assoluto, per abbracciare la relatività einsteiniana senza osservatori privilegiati, ognuno col proprio orologio/narrazione.
Questo discorso mi è tornato alla mente avendo ascoltato Peskov, il quale niente altro ha fatto se non enunciare una narrazione in totale antitesi con quella che proponeva il giornalista.
Mi ha colpito, ma non sorpreso in fin dei conti, che quest’ultimo non sia riuscito a scardinare la narrazione del portavoce russo in maniera ineludibile. Come già detto, il lusso delle prove certe, specie ora a caldo, non l’abbiamo. Il mio modello, per esempio, vista la gravità del tema, le esigerebbe. Senza, per carità, scattano altri meccanismi e mi accontento. Prendo una posizione, come detto, sulla base di “prove di secondo ordine” – Occam, cui prodest, max likelihood e compagnia cantante. Ma rimango insoddisfatto.
Tornando a Peskov e alla sua intervista, mi sembra chiaro che il suo effetto su un belga e su un russo sarebbe di rafforzare, in tutte e due i casi, i prior di entrambi. E non esiste un modo – perché il dibattito è troppo superficiale – per stabilire una verità più profonda. L’abbiamo richiamato spesso: la prima vittima della guerra è proprio la verità. Forse, col tempo, ci arriveremo, a questa verità (praticamente) “oggettiva”, ma tenderei a non farci troppo affidamento vista la complessità degli eventi e la pressione di interessi contrastanti, specie a fronte di episodi che mettono a nudo la bestialità dell’essere umano.
Nell’ intervista il giornalista chiedeva a Peskov (parafrasando): “Lei si rende conto che nessuno vi considera attendibili?” – allorché Peskov rispondeva “un momento: chi non ci considera attendibili?”. Intendeva, proseguendo, che il blocco occidentale non li considera attendibili, cosa ampiamente ricambiata, mentre il blocco de noantri invece si fida e abbraccia la narrazione russa.
Ed eccoci al punto. Peskov cos’ha detto? Ha detto: quella verità “pragmatica”, “praticamente oggettiva” tanto decantata dall’ Anchees nella vostra chat, quella verità condivisa rinunciando ognuno al proprio tornaconto, perché si capisce che così facendo si può approdare a soluzioni di livello superiore, quella che qualche inguaribile ottimista pensava stessimo faticosamente approcciando, è lettera morta.
Al suo posto, ecco cosa facciamo: due squadre, con due narrazioni pressoché antitetiche, che giocheranno in campi separati. Ognuno se la canta e se la suona per sé. Aveva ragione Stefano.