A proposito di Plagio: il caso Braibanti.

Una storia italiana, una storia non accettabile, che non si doveva descrivere, una storia di diritto penale, una storia di crimine, una storia di follia come scusa e una storia sui pericoli delle norme penali indeterminate. Era il 1968. Gli anni della rivolta. Valle Giulia. Pasolini stava per pubblicare la famosa lettera Il PCI ai giovani, nella quale, riferendosi agli scontri, sosteneva i poliziotti, provenienti dal proletariato, e non gli studenti, figli della ricca o agiata borghesia romana. 

Ma questa è un’altra storia. Pasolini, però, si occuperà anche della nostra storia. Come se ne occuperanno politici, artisti, uomini di cultura dell’epoca. Se ne occuperà con metodi barbari la psichiatria, se ne occuperà la magistratura. Se ne occuperanno i media. 

Era il 1968. Dopo quattro anni di processo, Aldo Braibanti venne condannato a 9 anni di reclusione per il delitto di Plagio, previsto dall’art. 603 c.p. che puniva chiunque sottoponesse una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione. 

Cosa era accaduto? Braibanti, quarantenne, conosce e inizia a frequentare un giovane piacentino di belle speranze, Giovanni Sanfratello, di anni 23, conosciuto nel laboratorio artistico che Braibanti aveva aperto a Castell’Arquato (PC). Si erano poi trasferiti a Roma. 

Il padre di Sanfratello, della borghesia più conservatrice e reazionaria di Piacenza, interrompe il sodalizio denunciando Braibanti per Plagio e rapisce il figlio. Lo fa rinchiudere in manicomio. Giovanni sarà sottoposto a terapie pesantissime quali una serie di elettroschock. 

Il padre del ragazzo, in questo poi supportato dal Pubblico Ministero, accusa il Braibanti di aver influenzato in modo sinistro il figlio, di averlo suggestionato, di averlo, insomma, plagiato, plasmandone la volontà per i suoi fini. 

Il processo durerà a lungo. Braibanti verrà difeso da Giovanni quando questi verrà chiamato a testimoniare, nonostante il manicomio e i trattamenti che aveva subito. Smentì di essere stato plagiato e di aver scelto liberamente di frequentare Braibanti e seguirlo a Roma. 

Al termine del processo, dopo la requisitoria del PM nel corso della quale pronunciò una frase riportata in tutte le cronache dell’epoca “il giovane Sanfratello era un malato, e la sua malattia aveva un nome: Aldo Braibanti, signori della Corte! Quando appare lui tutto è buio” 

Braibanti venne condannato a 9 anni di reclusione. In Appello la pena venne ridotta e alla fine passò due anni in carcere. 

Scesero in campo a sostegno di Braibanti numerosi intellettuali dell’epoca (una volta molti erano degni di questo nome) tra i molti Moravia, Pasolini, Eco e, ancora, Bene, Bellocchio, con i quali aveva avuto collaborazioni artistiche. 

Ne fece l’ennesima battaglia di libertà Marco Pannella, che subì addirittura un processo per calunnia per aver accusato con i suoi modi decisi il Pubblico Ministero. 

Ma chi era Aldo Braibanti? Nasce a Fiorenzuola d’Arda, nella provincia piacentina, Complesso riassumerne interessi e personalità in poche righe. Spaziava dall’arte, al teatro, alla letteratura. Era anche un mimecologo, studiava insetti e Carmelo Bene raccontò di un formicaio perfettamente ricostruito da Braibanti nella sua abitazione. 

Insomma, un uomo di multiforme ingegno. Braibanti era stato partigiano, arrestato in epoca fascista, aveva collaborato con la Gioventù Comunista e si era laureato in filosofia teoretica. Braibanti era omosessuale. La relazione con Sanfratello era una relazione omosessuale. 

Era il 1968. La rivoluzione culturale, la liberalizzazione dei costumi stava appena iniziando. La storia si colloca negli anni ’60. Anni di censure televisive e letterarie. L’omosessualità era un tabù. Intono al caso Braibanti ci fu uno scontro politico, sociale, giudiziario. 

La storia d’amore fra il ventitreenne Sanfratello e il quarantenne Braibanti sconvolse il padre del ragazzo, che incarnava valori ben precisi, religiosamente difesi, in tutti i sensi, da una parte dei benpensanti dell’epoca e della politica. 

Era il 1966 ed il processo era nel pieno quando a Milano, il il 14 febbraio alcuni coraggiosi studenti e studentesse del Liceo Parini di pubblicarono sul leggendario giornale studentesco La Zanzara un articolo su “La posizione della donna nella società italiana”. 

L’articolo, libertario per l’epoca, portò al sequestro del giornale e al processo per i giovanissimi autori, che vennero alla fine assolti dall’accusa di oscenità a mezzo stampa e pubblicazione clandestina. 

Tanti anni dopo ebbi la fortuna di conoscere bene e poter parlare con il Pubblico Ministero milanese, ormai da molti anni in pensione, che portò avanti l’indagine, che ben mi descrisse le “pressioni” del tempo e lo Zeitgeist di quella società. 

La storia tra Braibanti e Sanfratello trovò come spiegazione per il pensiero più conservatore del tempo, una forma di pazzia per il ragazzo e la commissione del reato di Plagio da parte di Braibanti. Una storia di follia e crimine insomma. 

Ed il diritto penale? Il delitto di Plagio, usato come arma per punire Braibanti, era previsto nel codice penale del ’30 all’art. 603. Tutt’ora in vigore. La condotta veniva descritta come il sottoporre una persona il proprio potere, in modo da ridurla in stato di soggezione.  

Un disvalore d’azione alquanto vago (sottoporre al proprio potere). Un evento (lo stato di soggezione) esangue e estremamente ampio nella sua latitudine, In definitiva e fuori dalle tecnicalità penalistiche, una norma indeterminata. 

La norma non spiega affatto come dovrebbe essere effettuata l’azione psichica del plagio, o come si possa dire raggiunto lo stato di soggezione. Tale soggezione può essere anche solo temporanea? Deve essere permanente?  

Il delitto aveva in pratica trovato applicazione solo nel caso Braibanti. Veniva additata dalla miglior dottrina penalistica, come un palese esempio di norma non tassativa, in violazione del principio di legalità sancito nell’art. 25 della Costituzione. 

Una norma, quindi, che avrebbe potuto lasciare troppa discrezionalità applicativa, lasciando al giudice e non alla legge (cui il giudice è soggetto) il compito di tracciare i confini del reato e dare succo sostanza al suo contenuto. 

Qualche anno dopo, nel 1981, viene contestato nuovamente il delitto di Plagio. Sottoposto a processo è Emilio Grasso, sacerdote, che faceva parte del Movimento Carismatico, denunciato da alcune famiglie di minorenni che frequentavano il sacerdote. 

Questa volta la norma venne portata all’attenzione e alle cure della Corte Costituzionale per possibile incostituzionalità per indeterminatezza, ovvero violazione del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. 

La Corte Costituzionale con sentenza 96/1981 dichiarò infine incostituzionale il delitto di Plagio per contrasto con l’art. 25 Cost. che sancisce il principio di legalità, di cui determinatezza e tassatività sono corollari indispensabili. 

Da quel giorno il Plagio è sparito dal nostro ordinamento giuridico. Ed è per fortuna sparito. Con la sua tossica vaghezza era in pratica lasciato alla interpretazione e applicazione del giudicante. Nel nostro sistema penale di stretta legalità ciò è contro la Costituzione. 

Ecco perché parlando di norme e leggi sentite da molti come necessarie per soggetti che possano essere discriminati in ragione di scelte personali insindacabili e da tutelare, ho preso posizione mesi fa per possibile carenza di tassatività, anche a rischio di contumelie 

Il Legislatore deve modellare e creare norme penali precise e determinate. Norme che possano essere interpretate anche estensivamente, ma che non lascino spazio a interpretazioni creative, analogiche, intuizionistiche. 

Il giudice non può e non deve essere la mera Bouche de la Loi secondo l’utopistico criterio illuministico del grande Cesare Beccaria, ma non può creare diritto penale. E solo norme determinate e precise possono impedirlo. 

Stefano Putinati