Erano circa le ore quindici del 23 marzo 1944, allorché, nell’interno della città di Roma, in Via Rasella, all’altezza del palazzo Tittoni, al passaggio dell’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment “Bozen”, appartenente alla Ordnungspolizei (polizia d’ordine) e composto da reclute altoatesine, avveniva la deflagrazione di una carica di esplosivo, seguito dal lancio di bombe a mano. Nella compagnia, investita dallo scoppio e attaccata dalle bombe, si determinava lo scompiglio: elementi del reparto, ritenendo che gli autori dell’attentato si trovassero nelle case adiacenti, aprivano disordinatamente il fuoco in direzione delle finestre e dei tetti. Per l’attentato ventisei militari tedeschi rimanevano uccisi, altri feriti più o meno gravemente, alcuni dei quali morivano successivamente. Alla notizia dell’attentato giungevano sul posto autorità tedesche e funzionari di polizia italiana: tra i primi accorsi, il comandante tedesco della città, generale Maeltzer, il console tedesco, Dott. Moelluser e, dopo circa mezz’ora, Herbert Kappler, ufficiale superiore delle Schutzstaffeln e comandante della polizia di sicurezza e del servizio di sicurezza, avvertito dell’accaduto nel suo ufficio di via Tasso.
Poteva andar molto peggio: giunto sul posto il generale Maeltzer, il comandante tedesco della città, in preda a visibile eccitazione, partoriva l’idea che si dovessero fucilare sul posto tutte le persone arrestate nelle vicinanze nei momenti subito successivi al fatto e far saltare il blocco degli edifici davanti ai quali era avvenuto l’attentato, con tutte le persone che vi abitavano. Solo il deciso intervento del Console tedesco evitò l’ulteriore carneficina, non esitò ad avere un acceso diverbio col Maeltzer per contrastarne il folle proposito; fortunatamente ebbe successo.
Kappler in colloquio col generale Von Mackensen ( comandante della 14^ armata ) dichiarava che, se fosse stato autorizzato al riguardo, sarebbe stato disposto a dare l’ordine di fucilare, in esecuzione delle sanzioni collettive stabilite per l’attentato che era stato commesso il giorno precedente da persone allora ignote a danno di un reparto tedesco, dieci delle persone scelte tra quelle che erano condannate a morte o all’ergastolo o arrestate per reati punibili con la morte e la cui colpevolezza fosse rimasta accertata nelle indagini di polizia, per ogni tedesco morto nell’attentato. Von Mackensen replicava che per lui era sufficiente che venissero fucilate soltanto le persone disponibili nelle categorie suindicate.
L’intendimento del comandante della 14^ armata di limitare il numero delle persone da uccidere in risposta all’attentato era però superato dall’ordine diretto di Hitler di fucilare, nelle ventiquattro ore successive, un numero d’italiani decuplo del numero dei militari tedeschi morti per l’attentato.
La mattina successiva, il numero dei morti tedeschi era 32, sì che il numero degli italiani da fucilare era 320. La tassatività dell’ordine circa il numero di trecentoventi persone importava, ovviamente, l’esclusione della facoltà di KAPPLER di aumentare il numero delle persone da mandare a morte, ciò che invece si verificò: Il 24 marzo 1944 militari tedeschi uccidevano 335 persone alle Cave Ardeatine, oggi tristemente note come Fosse Ardeatine.
Di queste 335 possiamo tracciare una triste contabilità: 154 erano a disposizione del comando di polizia tedesca per inchiesta, 23 a disposizione del tribunale tedesco in attesa di giudizio, 3 dallo stesso tribunale tedesco condannate alla pena di morte ed in attesa dell’esecuzione, sedici dallo stesso tribunale condannate a pene detentive varianti da uno a quindici anni, una addirittura assolta dallo stesso tribunale, 75 cittadini di religione ebraica, 40 a disposizione della questura per motivi politici, 10 a disposizione della questura per motivi di pubblica sicurezza, 10 arrestati in Via Rasella subito dopo l’attentato.
La verità processuale ci dice che l’attentato di Via Rasella fu effettuato da una organizzazione militare a seguito di direttive di carattere generale date ad essa da uno dei componenti della Giunta Militare, direttive che traducevano l’indirizzo della Giunta medesima (deposizioni degli On. Amendola, Pertini, Bauer). Nel marzo 1944 quasi tutte le più importanti organizzazioni militari clandestine, sorte per combattere i tedeschi, risultavano inquadrate, come si è detto, nella Giunta Militare, la quale, fra l’altro, aveva il compito di dare impulso unitario all’attività di quelle organizzazioni.
Mancava un capo responsabile del complesso di quelle organizzazioni, per cui ciascuna organizzazione agiva in maniera indipendente, attenendosi solo alle direttive della Giunta, tramite il proprio capo.
Per contro il Governo legittimo nominò capo di una organizzazione militare clandestina il Col. Montezemolo e, successivamente, il Gen. Armellini.
Ma questa organizzazione, la quale in Linea di massima raccoglieva militari già in servizio alla data dell’8 settembre 1943, era una delle varie organizzazioni che operavano nel territorio di occupazione e non era inquadrata nella Giunta Militare. Fra questo ente e quell’organizzazione sussistevano ottime relazioni, molto spesso aveva luogo uno scambio di idee, ma non passava un rapporto organico di preminenza o di subordinazione.
Nel marzo 1944 il movimento partigiano aveva assunto proporzioni di largo rilievo ed una discreta organizzazione, ma non aveva ancora acquistata quella fisionomia atta ad attribuirle la qualifica di legittimo organo belligerante. Ciò non è una particolarità del movimento partigiano italiano, ma è una nota caratteristica di tutti i movimenti partigiani, che nella recente guerra costituirono una delle migliori manifestazioni dello spirito di resistenza delle popolazioni dei territori occupati. Le formazioni partigiane, in genere, sono sorte spontaneamente, hanno agito nei primi tempi per necessità nell’orbita della illegalità fino ad assumere, come avvenne in proseguo di tempo anche per il movimento partigiano italiano, una organizzazione capace di acquistare la qualifica di organo legittimo belligerante.
Secondo il diritto internazionale (art. 1 della Convenzione dell’Aia del 1907) un atto di guerra materialmente legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari, i quali ultimi rispondano a determinati requisiti, cioè che abbiano alla loro testa una persona responsabile per i suoi subordinati, abbiano un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi.
Ciò premesso, si può senz’altro affermare che l’attentato di Via Rasella, qualunque sia la sua materialità, è un atto illegittimo di guerra per essere stato compiuto da appartenenti ad un corpo di volontari il quale, nel marzo 1944, non rispondeva ad alcuno degli accennati requisiti.
Stabilito che l’attentato di Via Rasella costituì un atto illegittimo di guerra occorre ancora accertare, per le diverse conseguenze giuridiche che ne derivano, quale era la posizione degli attentatori nei confronti dello Stato italiano.
Essi, come si è detto, facevano parte di una organizzazione militare inquadrata nella Giunta Militare. Questa, alla stessa stregua del Comitato di Liberazione Nazionale, per il riconoscimento implicito ad essi fatto, attraverso numerose manifestazioni, dal Governo legittimo e per i fini propri di quest’ultimo (lotta contro i tedeschi) che essa attuava in territorio occupato, si poneva come organo legittimo, almeno di fatto, dello Stato italiano. Questa interpretazione trova una conferma nel fatto che lo Stato successivamente, considerò come propri combattenti i partigiani, i quali avessero combattuto effettivamente contro i tedeschi.
Chiariti questi concetti si può esaminare la tesi della difesa, secondo la quale la fucilazione delle Fosse Ardeatine costituì una legittima rappresaglia.
Per rappresaglia s’intende una via di fatto contro lo Stato che abbia commesso una violazione di diritto internazionale, posta in essere dallo Stato che abbia subito quella violazione al fine di far cessare questa o per ottenere una soddisfazione. La sua attuazione può aver luogo sia in tempo di pace sia in tempo di guerra. In quest’ultima situazione può essere disposta, oltre che dall’autorità statale legittimata nei rapporti internazionali, anche dal comandante supremo o dal comandante di grande unità.
Il fondamento della rappresaglia, per come elaborato dalla dottrina internazionalista è dato dalla necessità di attribuire allo Stato offeso un mezzo di autotutela in conseguenza ed in relazione ad un atto illecito di uno Stato straniero. L’esercizio di essa è strettamente collegato alla resistenza di una responsabilità a carico dello Stato cui si riporta quell’atto. E’ sulla base di questo presupposto che allo Stato offeso è dato colpire, per rappresaglia, un qualunque interesse dello Stato difensore.
Quanto al contenuto è principio unanimemente accolto che la rappresaglia deve essere proporzionata all’atto illecito contro cui si dirige, ma non necessariamente della stessa natura.
Il principio della proporzione caratterizza l’istituto della rappresaglia, questa deve avere scopo repressivo e preventivo, non vendicativo. Con la rappresaglia si vuole fare cessare un’attività illecita ovvero si agisce perché non si ripeta un atto lesivo. Essa, quindi, deve agire come controspinta idonea a tale scopo, non in maniera superiore poiché altrimenti si trasforma a sua volta in atto ingiusto. Questo concetto è pacifico nella dottrina internazionalista.
E’ stato anche escluso che essa costituisca rappresaglia, perché un’azione di rappresaglia, oltre ad incontrare un limite nei diritti che sanzionano fondamentali esigenze, deve essere proporzionata alla violazione subita; e nel caso vi è un’enorme sproporzione tra l’attentato di Via Rasella e la fucilazione delle Fosse Ardeatine, sia in rapporto al numero delle vittime, sia in rapporto al danno determinato. Sempre in relazione alla fucilazione delle trecentoventi persone è stata esclusa la sua qualificazione di repressione collettiva in territorio occupato, occorrendo che la repressione, per essere legittima, sia attuata in base a norme precedentemente emanate e che sia riuscito vano ogni tentativo di individuazione dei colpevoli della violazione che si intende reprimere. Il principio di legalità, a quanto pare, s’impone anche in guerra.
Ulteriore nota degna di rilievo consiste nel fatto che la fucilazione delle trecentoventi persone è stata ritenuta -dal Tribunale Supremo Militare che si occupò della vicenda- nella sua materialità, costitutiva del reato contestato a Kappler, ma non gli è stata attribuita per il dubbio che Kappler non abbia avuto la coscienza e la volontà di obbedire ad un ordine delittuoso.
Quest’ultimo passo della sentenza del Tribunale Supremo Militare che condannava Kappler per l’omicidio di 15 persone è l’aspetto forse più doloroso di tutta la ricostruzione; vale la pena sottolinearlo ancora: Kappler, un essere umano come voi e come me non aveva la consapevolezza che uccidere 320 inermi fosse un ordine delittuoso. Per amor di verità va detto che anche i 33 altoatesini e i due civili fra cui un ragazzino di 11 anni erano tecnicamente inermi e che è lecito presumere che i partigiani coinvolti non avevano la consapevolezza di partecipare a un atto terroristico, qual fu definito dal Tribunale Supremo Militare (26.5.54). Allo stesso modo uno sguardo alla storia e alla sempre triste attualità ci fa capire che l’uomo, sotto l’ombrello di parole come “stato di guerra”, è portato a ritenere lecite azioni aberranti.
Tempo fa in un breve articolo ho letto di un lievito che per vivere necessita di carboidrati, come il glucosio, che spezza in due. Normalmente il glucosio così spezzato in due molecole diventa parte del ciclo della respirazione cellulare e fornisce tanta energia. Il lievito però a volte non prosegue così, ma con una reazione chimica meno energetica chiamata fermentazione alcolica. Perché lo fa? Il principale motivo per cui al lievito serve produrlo è che l’alcool uccide. Infatti è letale per tanti microrganismi che competono con il lievito per accaparrarsi le risorse limitate come un frutto zuccherino caduto a terra. Il lievito, che invece è resistente all’alcool, fa in pratica terra bruciata dei rivali per tenersi tutto il cibo per sé.
Noi, come specie, ci comportiamo molto peggio di questo microorganismo: ammazziamo anche i nostri simili per motivi molto meno seri della sopravvivenza di talché sovente vediamo gente come Kappler che ammazza 335 indifesi, perché i volti dei carnefici sono sempre diversi ma le vittime sono sempre le stesse, gli innocenti.
La domanda che dobbiamo porci come uomini che tentano di sfuggire alla banalità del male è: cosa conduce l’uomo a comportarsi così; nel compiere queste lodevoli celebrazioni che corrispondono ad evidenti memento, dobbiamo prendere atto, avere la consapevolezza, che l’atto di Kappler non è affatto un caso isolato, accettare che la violenza e l’aggressività che ci sono state indispensabili per sopravvivere, sono un retaggio ancestrale che ancora ci accompagna; concludere che solo attraverso il re-indirizzamento di questa aggressività, ottenuta mediante un’attenta educazione delle prossime generazioni si potrà in un futuro limitare questa attitudine. Ma non basta reindirizzare sapientemente l’aggressività, quest’opera va necessariamente accompagnata all’educazione del valore assoluto della lealtà, della perenne ricerca della conoscenza e soprattutto del rispetto dell’altro da sé.