Nel momento in cui scrivo quest’articolo Joe Biden è stato nominato 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America. La speranza, quindi, per noi “resto del mondo” è quella di non vivere altri quattro anni di gastrite tra dichiarazioni sopra le righe e atteggiamenti da Bullo di Stato, ma di poter contare su un rilassamento dei rapporti con l’America, nonché in comportamenti più consoni a un Capo di Stato.
Sicuri? Per quel riguarda l’aspetto personale, nutro pochi dubbi. Storia, umanità e carattere di Joe Biden sono in antitesi netta rispetto ai tratti distintivi di Donald Trump.
Discorso diverso sono le tendenze di lungo corso, ovvero quelle strategie geopolitiche che si sviluppano nell’arco dei lustri, se non dei decenni.
Discutere (divinare?) delle differenze in politica estera USA tra il neo-inquilino dello Studio Ovale e chi lo ha preceduto, quindi, richiede la divisione della tematica in due parti; le chiameremo forma e sostanza.
Partiamo con la forma: la presidenza Trump si è distinta, anche nei rapporti internazionali, per una totale assenza di tatto diplomatico.
Molto è dovuto all’esplosivo (diciamo così) carattere dell’inquilino pro tempore della Casa Bianca, parte però è conseguenza di un fenomeno più profondo, un fiume carsico che scorre possente in tutti i paesi occidentali, sotto le loro regioni rurali, arriva a lambire le periferie delle grandi città e sempre di più in questi ultimi anni trova la sua strada nei palazzi del potere.
Sto parlando della radicalizzazione delle idee nazionaliste e, conseguentemente, delle scelte elettorali dei popoli occidentali: Trump negli USA, Johnson in UK, Bolsonaro in Brasile, Duterte nelle Filippine, Orban in Ungheria, il duo Salvini / Di Maio in Italia e i “padri nobili” Putin in Russia e Erdogan in Turchia sono tutti accomunati dall’essere idoli di popoli che nella fratellanza, nell’internazionalità, nella liberalità delle istituzioni non credono più.
Non stupisce quindi, che il mantra di Trump sia stato quello di richiudere il proprio paese a riccio, con tanto di spine puntate verso il nemico di turno: sta semplicemente blandendo i suoi elettori.
Un’eventuale presidenza Biden senza dubbio si plasmerebbe in una forma completamente diversa. Il senatore del Delaware, infatti, è molto più ancorato a quella visione liberale del mondo che una volta apparteneva anche ai repubblicani (come dimenticare il compianto McCain) e già nel ruolo di vicepresidente di Obama ha dimostrato caratteri diplomatici e istituzionali completamente sconosciuti a Trump.
Il discorso si fa un po’ più complesso quando si arriva alla sostanza. E la sostanza è che, al di là degli atteggiamenti sguaiati dell’imprenditore prestato alla politica (ricorda qualcuno?), i trend di progressiva ritirata degli Stati Uniti dagli scenari caldi internazionali da un lato e di spostamento del focus della politica estera agli interessi immediati non l’ha introdotti Trump e potremmo anche dire, forse, che non l’ha nemmeno voluti il GOP.
Questo cambiamento “epocale” nella gestione dei rapporti con l’estero nasce infatti con la presidenza di Barack Obama e con la presa di coscienza che l’interventismo diretto, aperto, esplicito degli USA dentro i confini altrui non paga più, anzi richiede risorse economiche e politiche enormi e ingiustificate agli occhi dei cittadini americani. Banalizzando: una volta ucciso Bin Laden, il fattore dell’Oklahoma perché dovrebbe vedere il figlio catapultato in Afghanistan a farsi ammazzare?
Anche nei rapporti con l’Unione Europea, partner privilegiato degli Stati Uniti fino all’era Bush jr., Obama cambia passo, dimostrandosi molto più disattento. Europa e Stati Uniti sono stati per decenni la culla dei valori occidentali, con la NATO a fare da sigillo al fortissimo patto di collaborazione tra i due continenti. L’idea di Barack e dei suoi consiglieri è invece che l’Europa stia diventando sempre meno importante in un contesto globale, nel quale la Cina agisce da superpotenza praticamente indisturbata, la Russia è una nazione da tenere sott’occhio per l’influenza che ancora esercita dall’Europa dell’Est fino ai confini con il gigante rosso e il Sud Est asiatico, con il continuo alto e basso dei rapporti tra le Coree e una forsennata corsa al benessere di paesi senza forme compiute di governo democratico, rischia di scoppiare. Chiaro sia: la timidezza e la mancanza di una strategia geopolitica unitaria del Vecchio Continente, per non parlare di un governo dell’Unione, hanno sicuramente influito nello spostamento del focus dal Mediterraneo al Pacifico.
Trump si muove sulla stessa lunghezza d’onda del suo predecessore e anche se nei fatti distrugge molto di ciò che Obama aveva creato nel suo doppio mandato (dall’accordo nucleare con l’Iran al riavvicinamento con Cuba mediato da Papa Francesco), il filo conduttore della sua politica estera è la continuazione dell’opera di disimpegno, però con un obiettivo diverso: non puntare più a un’influenza politica, quanto a un dominio commerciale. L’interesse dei nuovi Stati Uniti è rendere ricchi i nuovi Stati Uniti. Tutto ciò che intralcia il concretizzarsi di questo traguardo viene visto come inutile, dannoso, costoso (ivi compresi i contingenti americani sparsi in giro per il mondo).
Certo, Trump porta avanti questa strategia a modo suo: offese personali (ad Angela Merkel su tutti), atteggiamenti da bullo, minacce di ritorsioni, guerre di dazi; nessun’arma, convenzionale o meno, viene tenuta dentro l’arsenale e sotto il fuoco della corazzata a stelle e strisce le prime vittime sono i trattati e le istituzioni internazionali.
Innumerevoli, infatti, le retromarce, le defezioni, gli stralci che il presidente USA ha compiuto solo guardando agli accordi strategici; tra i più importanti:
- Accordo di Parigi sul clima
- Accordo nucleare con l’Iran
- Trattato Inf sui missili balistici a medio raggio
- Att (Arms Trade Treaty, di contrasto al traffico illecito di armi)
- Trattato Open Skies (che consente a ciascuno stato firmatario dell’accordo la possibilità di effettuare ricognizioni all’interno degli spazi aerei degli altri paesi con l’obiettivo di costruire un clima di confidenza reciproca)
Alle istituzioni internazionali non è andata meglio: nel mirino della presidenza americana sono finiti l’UNESCO, la WHO e, seppur in maniera non così “definitiva”, la NATO, l’UE e l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
D’altro canto, Trump, in questi quattro anni lavora molto al riavvicinamento dei rapporti diplomatici con Israele e Arabia Saudita, due partner di lungo corso degli USA, che vennero indispettiti dagli accordi sul nucleare iraniano favoriti dal primo presidente di colore della storia USA.
Saremmo poi ingiusti se non citassimo gli storici Accordi di Abramo tra Israele, Bahrain e Emirati Arabi Uniti, un risultato ottenuto grazie alla mediazione diretta di Trump.
Se il trend di assottigliamento della sfera d’influenza USA è così definito, però, un’eventuale presidenza Biden da questo non si potrà discostare molto.
Egli stesso, in un suo editoriale pubblicato su Foreign Affairs nell’aprile scorso ha tracciato il sentiero di una ripresa del ruolo di Leader mondiale da parte degli Stati Uniti, anche attraverso il ritorno alla “normalità” nei rapporti con la NATO e con gli alleati storici (Canada e UE), il rientro immediato degli USA negli accordi di Parigi, perché vede (e con lui, tutto il suo partito, dall’area radicale a quella più liberal) il riscaldamento da gas serra come un’emergenza mondiale che globalmente va affrontata e, non da ultimo, la fine della politica di straccio di accordi internazionali. D’altro canto, ed è molto chiaro nell’esplicitarlo in ogni occasione, l’idea di una politica estera attuata attraverso lo smistamento di giganteschi contingenti militari in tutte le aree calde del pianeta corrisponde a una visione pre 21esimo secolo e, come se ci fosse bisogno ribadirlo, gli alleati e i concorrenti si valutano in un’ottica strategica, non solo e non tanto di immediato ritorno commerciale. Quindi, la politica dei dazi smette di essere una clava utile per la sottomissione di amici e nemici, indistintamente (forse perché tutti sono visti come nemici) e riacquisisce il suo ruolo di deterrente e di soft-war.
Le guerre in Iraq, Afghanistan, l’11 settembre, la crisi dei subprime, tutti gli eventi che hanno contribuito all’incertezza in questi ultimi due decenni ci hanno regalato un mondo in cui nessuno si può più permettere di non guardarsi prima l’ombelico. America First, anche se non più urlato a squarciagola, rischia di diventare un refrain che ci porteremo dietro per molto molto tempo.
Questo articolo è stato ispirato dalle seguenti fonti:
- Joseph R. Biden su Foreign Affairs – Why America Must Lead Again (https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2020-01-23/why-america-must-lead-again?utm_medium=social&utm_source=twitter_posts&utm_campaign=tw_daily_soc)
- Riccardo Alcaro su Affari Internazionali – Trump: radicalizzazione del partito repubblicano e politica estera (https://www.affarinternazionali.it/2020/06/trump-radicalizzazione-del-partito-e-politica-estera/)
- Lucio Martino su Formiche.net – L’arte dell’incertezza. Martino traccia un bilancio della politica estera di Trump (https://formiche.net/2020/09/trump-bush-obama-politica-estera/)
- AA. VV. su IspiOnLine – USA 2020 – Focus n°2 Gli USA e il mondo: come cambia il rapporto con l’Europa (https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/gli-usa-e-il-mondo-come-cambia-il-rapporto-con-leuropa-27551)
- AA. VV. su IspiOnLine – USA 2020 – Focus n°3 Gli USA e il mondo: la NATO ai tempi di Trump (https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/gli-usa-e-il-mondo-la-nato-ai-tempi-di-trump-27653)
- Euronews – Trump vs. Biden: strategie divergenti in materia di politica estera (https://it.euronews.com/2020/10/27/trump-vs-biden-strategie-divergenti-in-materia-di-politica-estera)
- Pierluigi Magnaschi su ItaliaOggi – In politica estera Trump è stato enormemente meglio di Obama (https://www.italiaoggi.it/news/in-politica-estera-trump-e-stato-enormemente-meglio-di-obama-2476522)
- Andrea Muratore su InsideOver – Trump e Obama: politiche estere a confronto (https://it.insideover.com/politica/trump-e-obama-politiche-estere-a-confronto.html)