M U S T W E S U F F E R A T T H E E N D O F L I FE?
Eh?
E’ quello che si chiedeva ad un esponente autorevole dell’ ebraismo in USA il 27 marzo 2005. La questione e quindi di rilevanza per i paesi industrializzati (il IV mondo fa già fatica a vivere, immaginiamo a morire), coinvolge trasversalmente movimenti religiosi, correnti di pensiero e orientamenti politici, in Italia è di scottante attualità ma ne parlo non sulla spinta emotiva, e con cognizione di causa. Dunque: dobbiamo soffrire alla fine della Vita? NO
Meno se in ginocchio sappiamo ora e magari con l’ epidurale non si soffre nemmeno.
Bene siamo nati, mamma non ha urlato di dolore, la nostra vita scorre ricca di soddisfazioni poi, un giorno, fatalmente arriva la fine. Improvvisa, inaspettata; crudele certo, ma inevitabile; o arriva, la Morte, progressiva, lenta, sorda e dolorosa, tanto dolorosa: per chi muore e per chi rimane, per l’ animo e per il corpo. Ci hanno insegnato che “Mens sana in corpore sano”, ma non ci hanno insegnato che quando il corpo soffre, il dolore si può togliere, annullare, estinguere (e magari sta meglio anche la mente?) in una parola si può palliare.
Palliare.Si palliare.
Palliare, visto? E un vocabolario recita: in medicina Guarire in apparenza. Guarire da cosa? Da un cancro allo stadio terminale, da un una SLA allo stadio terminale. Non ci siamo, o stiamo usando il termine sbagliato o stiamo facendo le cose sbagliate, più probabile la seconda ipotesi. Dunque se ne dovrebbe dedurre che: Medicina palliativa è guarire in apparenza, alleviare momentaneamente i sintomi del male, i più gravi per giunta; momentaneamente?
E perché non definitivamente?
E il dolore è un sintomo?
Direi che è il sintomo, e che nella malattia terminale, quella con la Morte come SDO, è il primo sintomo da curare e da sopprimere. Perché non ci segnala più niente il dolore, sappiamo che il paziente sta male e sappiamo che morirà, abbiamo bisogno di sentirlo urlare per giorni o settimane per capire che è un malato terminale?
Già, malato terminale, niente più cure, niente accanimento; e chi lo dice al paziente “Stai per morire, hai bisogno di cure non per la tua patologia ma per il dolore”, o ai famigliari? Nasce una sorta di complotto del silenzio, il medico che ad occhi bassi prescrive la “solita” terapia magari con un “Tramadolo al bisogno”, l’ infermiere che la esegue pedissequamente fuggendo col pensiero per evitare un inevitabile “burning out”, e magari qualche ministro di culto, volontario o caregiver non preparato che se ne esce con il classico “Vedrai che passa”.
Tramadolo al bisogno? Io ne ho bisogno continuamente e il Tramadolo non mi fa più niente!!!
Voglio le carezze e forse voglio la Verità… Sicuramente la verità fa male, ma l’ ipocrisia è peggio, è uno scarico di responsabilità, totale e doloso. Forse non tutti i malati terminali vogliono la verità, ma questa non è una decisione che il Medico o l’ Infermiere può prendere in autonomia senza avere prima avuto un approccio integrato (Psicologi?) ed olistico con l’ intero nucleo famigliare, nucleo che dovrebbe sempre sapere la Verità, ma il dibattito è aperto.
Chi vi scrive (Claudio) gode di una buona salute, ma si preoccupa di queste cose oltre che per esperienza vissuta, anche per una sorta di sano egoismo, certo ora sto bene, ma se mi venisse un cancro come vorrei essere curato? Vorrei sapere? Vorrei sentire dolore? Mia nonna, saggia vecchia, diceva con una frase non sua “Morire si, soffrire no”.
Io? Vorrei le carezze, gli sguardi dei cari e vorrei la Verità.
Ci guardiamo un po’ intorno? Cosa stanno facendo i colleghi nella vecchia cara Europa o nei mitici USA?
Evidenze… Tristi Evidenze
Formazione tradizionale
Sebbene la situazione stia lentamente cambiando, le cure palliative tradizionalmente non hanno fino ad ora avuto un alto profilo all’interno dei programmi di formazione teorico-pratica degli operatori sanitari. Molti libri di testo per medici o infermieri spesso non contengono praticamente alcuna informazione sulle cure di fine vita, se si esclude ciò che riguarda la prognosi. Ciò può spiegare perché spesso gli operatori sanitari dichiarano di non sentirsi ben preparati nel comunicare cattive notizie, verificare la prognosi, controllare i sintomi o aiutare i malati a prendere decisioni difficili. Può anche spiegare perché i pazienti vengono inviati troppo tardi alle cure palliative o non vi vengono indirizzati affatto. Tuttavia esistono prove incoraggianti che molte di queste capacità si possono acquisire durante i percorsi formativi pre-e-postlaurea o successivamente.
Imparare nella pratica quotidiana
Ricerche su studenti in medicina hanno riscontrato che coloro che hanno avuto l’opportunità di seguire pazienti oncologici per maggiori periodi di tempo, o di apprendere durante tali periodi tecniche di comunicazione, sono più perspicaci e disposti all’ascolto, disponibili a trattare argomenti difficili e ad aiutare le persone a prendere decisioni.
Ci sono anche evidenze che infermieri e medici già pienamente qualificati possono acquisire ulteriori conoscenze sulle tecniche di comunicazione frequentando corsi intensivi più avanti nel loro percorso formativo e nella loro carriera.
Tuttavia non è sempre facile per questi professionisti mettere a frutto nuove tecniche data la realtà della pratica quotidiana. Ciò può significare che gli operatori hanno bisogno di ulteriore formazione con feedback costruttivo per periodi di tempo più prolungati o che le organizzazioni sanitarie devono fare di più per sviluppare culture e pratiche di lavoro in cui utilizzare queste tecniche. Questo significa anche lasciare più tempo a disposizione per erogare assistenza di alta qualità e assicurare le strutture adatte. Perfino gli operatori sanitari con la migliore formazione trovano difficile lavorare al meglio se si sentono sotto pressione, sollecitati alla velocità, non apprezzati ed esposti alle critiche. Le questioni etiche nella cura dei malati sono sempre più complesse, soprattutto in caso di patologie progressive e gravi.
Formazione e dibattiti sugli aspetti etici sono dunque essenziali.
Esse comprendono la segretezza, la discussione della prognosi e i benefici e gli svantaggi di una terapia, il lavoro con malati e dinamiche familiari complessi, direttive anticipate, allocazione delle risorse, confronto e dialogo con pazienti e famiglie che richiedono il suicidio assistito o l’eutanasia, la sospensione o cessazione delle terapie, e l’assunzione di decisioni nei casi di malati che non sono in grado di comunicare.
Formare tutti gli operatori sanitari
Non è realistico aspettarsi che i maggiori bisogni emergenti di cure palliative siano soddisfatti aumentando la forza lavoro di specialisti in cure palliative. È più probabile che si possa trovare una soluzione espandendo la conoscenza e abilità degli operatori sanitari in generale. Vi sono chiare evidenze che la conoscenza e gli atteggiamenti degli operatori di base rispetto alle cure palliative possono essere migliorati, ma c’è bisogno di una formazione a due vie fra specialisti e generalisti. Se i pazienti non oncologici devono avere un migliore accesso alle cure specialistiche, gli specialisti stessi dovranno imparare di più sui sintomi diversi da quelli causati dal cancro.
Implicazioni per la programmazione sanitaria
- I programmatori dovrebbero garantire che le cure palliative diventino una parte centrale nell’addestramento e formazione continua di medici, infermieri, operatori sociosanitari, ministri di culto e altri operatori sanitari.
- Un numero sufficiente di specialisti in cure palliative dovrebbe essere addestrato e supportato per fornire questa formazione.
- Le organizzazione sanitarie devono investire nel supportare gli operatori sanitari a rimanere aggiornati in cure palliative, soprattutto nella gestione del dolore e dei sintomi, nello sviluppare e mantenere le tecniche di verifica e di comunicazione e nell’utilizzare tutte le risorse disponibili.
- Le organizzazioni sanitarie devono sviluppare culture e pratiche di lavoro che permettano il migliore utilizzo delle tecniche di cure palliative, compreso trascorrere abbastanza tempo con i malati e le loro famiglie.
Riferimenti bibliografici
- Carron AT, Lynn J, Keaney P. End-of-life care in medical textbooks. Annals of Internal Medicine, 1999, 130:82–86.
- Barclay S et al. Caring for the dying: how well prepared are general practitioners? A questionnaire study in Wales. Palliative Medicine, 2003, 17:27–39.
Mi sembra emblematico l’ esempio sopra riportato, i dati sono certi, le cose non vanno meglio neanche in USA, ma si guarda ai problemi con una Vision diversa, sarà il pragmatismo che hanno insito nella cultura.
Certo è che se il nostro esempio di sanità e quello anglosassone, noi siamo ancora alla preistoria della palliazione. Parliamone allora, parliamo di Morte, Dolore, Palliazione, parlare non fa mai male, ci si può confrontare e correggere, non lo scopro certo io, il silenzio non aiuta, appare come un velo grigio ed appartiene più ad un sentire mafioso che non ad una corretta pratica di divulgazione scientifica e civile.
Parliamone e parliamo alla gente. Discussione pubblica della morte.
Si dice sempre più spesso che, con i progressi della salute pubblica, delle condizioni e aspettative di vita, nei paesi avanzati si sia persa la familiarità con la morte e il morire che avevano le generazioni precedenti. Con la perdita di forti credenze religiose e spirituali può essere andato perduto un linguaggio e un contesto in cui le persone potevano parlare agevolmente della morte. In effetti la morte può essere allontanata a tal punto dall’esperienza quotidiana che la sua eventualità può essere negata o cogliere di sorpresa. La Medicina è anche accusata di promuovere l’opinione che la morte sia un fallimento piuttosto che un evento naturale che può essere rimandato ma che alla fine accadrà. D’altro canto i mezzi di comunicazione, l’arte popolare e la musica ci presentano immagini di morte di altre persone, spesso improvvisa, inaspettata e causata da qualcun altro.
A volte tuttavia i media presentano anche persone che hanno vissuto bene con gravi malattie fino alla morte e sono stati d’esempio o di contributo alla comunità, purtroppo raramente e non chiarendo fino in fondo che alcune patologie ad un certo punto, hanno come unico rimedio la palliazione.
Implicazioni per la programmazione sanitaria
Il successo e la crescita del movimento delle cure palliative e in particolare degli hospice testimonia l’importanza che il pubblico attribuisce alle cure di alta qualità alla fine della vita. Vi sono già esempi efficaci di programmi di sensibilizzazione pubblica che hanno esplorato questi argomenti, usando la cultura popolare, i media, la musica, l’arte e la letteratura. Spesso fare uscire allo scoperto le storie dei malati, delle famiglie e dei caregiver è un potente strumento per stimolare dibattito e azione.
- Le politiche sanitarie devono prevedere una componente di sensibilizzazione della popolazione per aumentare la consapevolezza delle specificità delle cure palliative.
- Ciò dovrebbe superare i tradizionali corsi educativi per adulti per raggiungere persone nei vari ambienti sociali nella comunità, usando differenti modalità.
Non basta però, la nostra Italia ci ha abituati a fenomeni di informazione, ossessivo-transitoria, esempi? Si sente più parlare di cani che mordono i bambini? Che fine ha fatto il caso Aldrovandi? I comunisti mangiano più i bambini?
No ora si parla solo di COVID.
La formazione, l’ informazione e la cultura dovranno recitare un ruolo di costante e visibile impegno se vorremo veramente cambiare le cose, le “credenze” vanno secolarizzate con l’aiuto delle menti aperte, con “ l’ élite intellettuale”. Che, la smetta di fare l’ élite una tantum, prenda la vanga e venga a smuovere gli animi sedimentati del “Pensiero Comune”.
Il titolo potrebbe essere “Idee per un vocabolario delle cure di fine vita”. Già, un vocabolario sarebbe un bel passo aventi eh?
P.S. Prima nota per il vocabolario: hospice = (sost.) casa d’accoglienza.
Non vuol dire ospizio.
Claudio Giulio Torbinio