New York è una città morta. E non si riprenderà.
La City londinese si è svuotata. E vuota lo rimarrà per molto tempo.
A Milano, Beppe Sala, esorta i suoi cittadini a finirla di perdere tempo (AKA, lavorare in smart working) e a tornare al lavoro in ufficio.
A Roma c’è traffico; a Roma c’è sempre traffico, ci sarebbe anche se fossi l’unico suo abitante, ma, complice anche il calo del turismo, la città sembra vuota.
Altrove la tendenza non è molto diversa e il dubbio che sorge a questo punto è se il modello di città al quale siamo abituati, al quale il progresso e la rivoluzione industriale ci hanno abituati, sia destinato a tramontare.
In realtà, il processo di aggregazione tra persone in un luogo comune è insito nel concetto di società umana e per millenni le città hanno costituito non solo luoghi di vita, ma soprattutto angoli di facile “affiliazione”.
Le agorà greche, i fori romani (e gli equivalenti spazi nelle evolute civiltà africane, mediorientali e asiatiche) hanno dato forma non solo alle nostre città, ma anche al nostro concetto di cittadinanza, fondato sulla vicinanza sociale.
Ogni aspetto delle moderne metropoli è stato progettato e costruito intorno a questa complessa manifestazione: alcuni quartieri accolgono concentrazioni d’imprese, altri, luoghi di ritrovo ricreativo, altri ancora, abitazioni. Tutto è fondato sulla vicinanza tra persone.
Di conseguenza anche le economie metropolitane si sono evolute in tal senso e centinaia di milioni (a livello globale) di posti di lavoro trovano la loro collocazione dentro più o meno enormi agglomerati urbani.
Questo meccanismo pare essersi rotto, e per la prima volta nella storia si afferma a livello globale quasi un principio di delocalizzazione. La tendenza sembra chiara e anche se oggi è mascherata da precauzioni anti-covid, molti sembrano non intenzionati a riprendere la vita di prima. O a farla riprendere ai propri dipendenti.
Intendiamoci, fenomeni di deurbanizzazione nei secoli sono sempre avvenuti, ma il principio aggregativo (le “piazze”) non è stato mai messo in discussione.
A suo modo (fatte le dovute proporzioni), stiamo vivendo le conseguenze di una di quelle apocalissi che siamo abituati a vedere nei blockbuster hollywoodiani, non certo nella paura di un’imminente estinzione fisica, personale, ma sicuramente nel senso di lacerazione dei rapporti e degli spazi sociali.
Non solo, seguendo il filo di quanto detto sopra, questa tendenza costringerà l’umanità a ripensare interi pezzi di economia e intere filiere di produzione di beni materiali e di servizi. Non stupisce quindi la “grinta” (paura…?) con cui Sala chiede un ritorno alla normalità: non ha una soluzione per quest’apocalisse, ma è in buona compagnia. Nessuno ce l’ha.
Ogni crisi, solitamente si dice, spero per noi senza vuota retorica, è un’enorme occasione di progresso. Ricostruire gli spazi di aggregazione su canoni nuovi e “salvare” quindi la socialità umana sarà una delle sfide più grandi, esaltanti da un lato e urgenti dall’altro, che ci troveremo a dover affrontare nel prossimo futuro. La tecnologia, paradossalmente, gioca contro di noi. O forse no. La tecnologia è solo uno strumento, saperlo usare a nostro vantaggio sta a noi.