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La legittimità delle limitazioni alla libertà di espressione in relazione alla disinformazione

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Di Graziano Mereu e Gabriele Eramo Puoti


Introduzione


La libertà di manifestazione del pensiero o libertà di espressione costituisce un principio fondante delle moderne costituzioni liberali, in assenza del quale risulterebbe arduo parlare di ordinamento democratico.
Il contenuto della libertà di espressione si individua nella facoltà di un soggetto di esprimere la propria personalità all’interno della società, partecipando al dibattito politico e sociale.
Nella Scienza della legislazione, Gaetano Filangieri (1752-1788) affermò che tale libertà, resa possibile da una stampa libera, “si troverà sempre che è uno de’ beni il più fecondo di altri beni; uno dei dritti più efficaci alla conservazione degli altri dritti, una delle libertà meno esposte al pericolo delle altre libertà, cioè alla licenza [ossia la condizione di anarchia e sfrenatezza in cui si traduce l’eccesso di libertà o il suo cattivo uso, n.d.r.], ed è uno de’ più vigorosi soccorsi che la legislazione somministrar possa alla pubblica istruzione”.
La necessità di tutelare questa libertà è quindi duplice: da un lato, essa permette di rendere concreto il vitale dialogo da cui scaturisce la crescita sociale; dall’altro, perché il controllo delle azioni (od omissioni) da parte del governo si realizza sia per l’intervento delle autorità giudiziarie che per il tramite dell’opinione pubblica, la quale, attraverso la libera informazione e la libera diffusione del pensiero, può esercitare con efficacia il suo ruolo.

Cenni storici

In epoca moderna, uno dei primi ordinamenti che riconobbe la necessità di introdurre una normativa relativa alla libertà di espressione fu l’ordinamento degli Stati Uniti d’America: infatti, la costituzione USA del 1784 al primo emendamento recita: “Il congresso non promulgherà leggi […] che limitino la libertà di parola o di stampa […])”.
Il caso americano è indubbiamente affascinante, soprattutto se si considera che gli USA, dopo gli inglesi, giunsero dalla pratica (conflitto per l’indipendenza e Bill of Rights) alla teoria (Locke).
I francesi, invece, operarono all’inverso, pervenendo al concreto, cioè alla rivoluzione, dopo molta teoria (Montesquieu, Rousseau, etc.).
Analizzando i Cahiers de doléances (letteralmente, quaderni di lagnanze), che furono presentati all’assemblea degli Stati Generali, è interessante notare come i 60.000 esemplari rimasti siano sostanzialmente unanimi nel domandare con vigore una maggiore libertà di stampa.
Fu così che si stabilì, all’art. 11 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789, che la libertà di manifestazione del pensiero doveva essere considerato come “uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge”.
In tema di abuso, si noti bene che questa previsione non costituisce affatto un limite alla libera manifestazione del pensiero, bensì ne rafforza la tutela.
Si ha abuso di un diritto, infatti, quando un soggetto piega a suo esclusivo vantaggio una norma dell’ordinamento, distogliendola dalla sua funzione originaria; ne consegue che la legge, individuando e sanzionando i casi di abuso del diritto a manifestare liberamente le proprie idee, protegge tutti gli altri comportamenti leciti, proprio perché meritevoli di assoluta tutela.
L’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, afferma che: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.
Questo articolo va letto in parallelo con il successivo art. 29 che stabilisce “Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico, e del benessere generale in una società democratica. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite”.
Nell’ordinamento italiano, questo diritto è riconosciuto dall’art 21 della Costituzione che recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Proprio a Roma, il 4 novembre 1950, è stata promulgata la Convenzione della salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali la quale, relativamente al diritto che ci interessa, all’art. 10 così stabilisce: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive”.
Nel punto 2 lo stesso articolo afferma: “ L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.”
L’Unione Europea, rispondendo alla necessità di affermare un gruppo di diritti fondamentali che fossero garantiti a tutti i cittadini dell’Unione, ha promulgato la Carta di Nizza o Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
E’ stata proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 e una seconda volta il 12 dicembre 2007 dal Parlamento, Consiglio e Commissione europea.
La Carta di Nizza, pienamente vincolante per le istituzioni europee e per gli Stati membri, all’art 11 dichiara che: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”.
Apparentemente la Carta non pone limiti all’esercizio di tale diritto.
In realtà, la norma di chiusura (art 54) della stessa prevede il divieto dell’abuso di diritto: “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Carta”.
La Corte Costituzionale italiana sin dal 1956 ha più volte sostenuto che la libertà di manifestazione del pensiero, in quanto una delle libertà fondamentali, non può incontrare limitazioni diverse da quelle rinvenibili in precetti e principi costituzionali.
I principi fondanti dello Stato esigono che la democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la partecipazione di tutti.
Da ciò discende che il cittadino deve essere messo in condizioni di compiere liberamente le sue valutazioni attraverso l’analisi di punti di vista differenti ed anche di orientamenti culturali contrastanti, mediante i quali egli può attingere conoscenze e notizie.
Ciò impone che i dati forniti al cittadino, affinché possano essere adoperati da esso per costuire il proprio convincimento, siano caratterizzati da profili di obiettività e imparzialità, nonché dal rispetto della dignità, dell’ordine pubblico, del buon costume e dello sviluppo psichico dei minori.

Manipolazione dell’informazione ai tempi del COVID-19


Il 2 aprile 2020 è stata dichiarata come la giornata internazionale del fact-checking, ossia del controllo sulla veridicità delle informazioni.
Il fatto che l’intera collettività mondiale abbia sentito il bisogno di eleggere un giorno ad hoc per un simile scopo, conduce ad alcune riflessioni.
Innanzitutto, perché ora? Cosa ha mutato il sentimento dell’opinione pubblica?
La principale motivazione risiede nella comparsa del Covid-19: è stato rilevato che, durante l’insorgere e lo svilupparsi della pandemia, moltissime notizie false, parziali ed erronee (note come “bufale”) collegate al virus fossero state immesse in rete, provocando una moltitudine di vittime della (dis)informazione.
Le persone non abituate a verificare le fonti o semplicemente più vulnerabili dal punto di vista psichico, sono state colpite violentemente da informazioni inaffidabili, che hanno creando diffidenza, caos, amplificato le divisioni e aggravato situazioni di crisi.
A titolo di esempio possiamo menzionare la teoria del complotto che collega il Covid-19 con le reti 5G: in virtà di un non meglio specificato effetto pseudo-scientifico, l’installazione della rete 5g favorirebbe il diffondersi del virus, quest’ultimo creato in laboratorio con il solo scopo di introdurre vaccinazioni.
Il proliferare di questa sotto-cultura è un dato allarmante, che non deve essere sottovalutato in alcun modo né tantomeno ridicolizzato: l’obiettivo è quello di indurre sfiducia nelle autorità nazionali ed europee, nei sistemi sanitari, nelle istituzioni internazionali e negli scienziati.
La pericolosità di queste attività di disinformazione è enorme; basti ricordare che in Italia molti cittadini di origine asiatica sono stati aggrediti al principio dell’epidemia o che in Gran Bretagna gli stessi cittadini inglesi hanno distrutto le antenne 5G ed aggredito i tecnici che le stavano installando.
Secondo il Parlamento Europeo, la propagazione del Covid-19 ha portato alla diffusione di notizie false e alla disinformazione, ostacolando così gli sforzi per contenere la pandemia.
Queste fake news hanno lo scopo di creare un clima di ansia, tensione sociale e sfiducia.
Come riportato nell’articolo dell’Ansa pubblicato agli inizi di Aprile, il Parlamento Europeo ha rilasciato una nota che, citando un rapporto della taskforce anti-disinformazione del SEAE (Servizio Europeo per l’Azione Esterna), riferisce come alcune false affermazioni provengano da attori vicini alla destra alternativa statunitense, alla Cina e alla Russia.
Difficile non credere che l’obiettivo non sia politico, volto a minare l’Unione Europea o a creare cambiamenti politici.
Non è un caso che la piattaforma You Tube, di proprietà di Google, abbia ridotto la visibilità di tutti i video che collegavano la pandemia della Coronavirus alla tecnologia 5G.
Analogamente hanno agito Facebook, chiudendo diversi gruppi che diffondevano disinformazione, e Twitter, che ha aggiunto un fact-checking sotto i tweet del Presidente Trump.
Ma questi comportamenti sono giuridicamente corretti?
La risposta è positiva.
I social network sono strumenti di proprietà di società private, non risorse statali: essi, quindi, rispondono a scopi privati (di lucro e non certo idealistici) e non anche a interessi pubblici.
Tuttavia, va sottolineato come la decisione di oscurare, limitare o modificare manifestazioni di pensiero non sia stata una decisione assunta arbitrariamente: i social network, infatti, sono dotati delle c.d. “regole di condotta”, al rispetto delle quali sono obbligati coloro che desiderano avvalersi dei social network stessi.
Si pensi all’ipotesi del biglietto del cinema: esso consente di assistere alla proiezione del film, purché si rispettino le regole del cinema; l’iscrizione ad una piattaforma social equivale al biglietto del cinema: consente l’uso della stessa, finché se ne rispettano le regole.

Conclusione

Il rapporto dialettico tra la libertà di manifestazione del pensiero e la necessità di porre un freno a derive pericolose è indubbiamente un rapporto difficile.
Dove finisce la libertà del singolo ed inizia la libertà della collettività?
Chi decide cosa è giusto pubblicare e cosa invece merita censura?
La necessità di individuare con la maggior accuratezza possibile i confini di intervento trova un triste riscontro nella recente esperienza della Turchia.
All’art. 2 della Costituzione turca si legge che “la Repubblica della Turchia è un paese democratico, laico e sociale governato nel rispetto della legge; approva le idee di pace pubblica, solidarietà nazionale e giustizia […]”.
L’art. 13 Cost. afferma che i diritti fondamentali e le libertà possono essere limitate solo dalla legge ed in conformità con i principi fondamentali dellla Costituzione) e l’art. 14 Cost. che nessuno dei diritti e delle libertà previste dalla Costituzione deve essere rivolto alla violazione dell’indivisibile integrità nazionale e con il suo territorio e la sua nazione, né mettere in pericolo l’esistenza della democrazia e della laicità della Repubblica Turca che trova il suo fondamento nei diritti umani.
La domanda, da un punto di vista squisitamente costituzionale, è la seguente: è lo Stato turco che non può abusare dei diritti o sono i titolari dei diritti a non doverne abusare, per non infrangere quei limiti di costituzionalità di cui agli artt. 13 e 14 Cost.?
Attraverso la creazione di uno Stato emergenziale che si trova in uno stato di lotta continua, ora contro il terrorismo ora contro l’immigrazione (ricorda qualcosa?), sono stati giuridicamente giustificati gli arresti di 130 giornalisti durante il fallito colpo di stato del 2016 e il blocco dell’accesso a siti internet come Wikipedia, quest’ultimo nel 2017.
Eppure, in uno Stato di diritto, che al momento riteniamo essere la massima espressione dell’evoluzione sociale umana, frutto di secoli di lotte e conquiste, lo strumento atto a stabilire il confine tra lecito e illecito può essere solamente uno: la Legge.
Benché il Legislatore non sia certo una entità sovrannaturale dotata di infallibile giudizio, è pur sempre l’espressione della volontà democratica di un popolo (sempre che si sia liberamente formata); e quando esso agisce nel rispetto dei principi fondamentali, contenuti nelle Costituzioni e nei Trattati internazionali, agisce a tutela dei propri consociati.
Al momento il Legislatore è in affanno, tormentato da pressioni interne ed esterne alle quali è certamente difficile far fronte: chi scrive, però, si augura che il Lume della Ragione, tanto caro ad una certa corrente filosofico-giuridica, torni presto a rischiarare la nostra via.